Umberto Eco, nella prefazione a un libro di racconti di Woody Allen, descrive con rara sincerità il proprio orgoglio nell’essere stato in Italia uno dei primi amanti e conoscitori dell’opera di questo straordinario newyorkese. Nate e concepite per palati raffinati le opere di Allen, sia letterarie sia teatrali o cinematografiche, hanno generato, diversi anni orsono, veri e propri circoli di intellettuali innamorati di se stessi e alla perenne ricerca dell’esclusivo, del nuovo e travolgente progressismo, del nevrotico incompreso.
In Allen schiere di maître à penser della modernità, più o meno riusciti, si sono riconosciuti adorandolo come feticcio, primo visibile rappresentante della loro schiatta unica e irripetibile. Eppure il regista è al contempo l’emblema e il fustigatore di tale categoria umana. E proprio nel prendere in giro usi e costumi degli eccentrici intellettuali di sinistra (e non) ha costruito parte della sua immensa fortuna.
Lo schema è sempre lo stesso comunque Allen lo voglia rappresentare, che si tratti commedie o “tragedie”: un individuo eccellente che si scontra con la normalità dettata dalla morale comune, sia questa religiosa o meramente convenzionale. I dilemmi che affliggono il protagonista sono considerati assurdi dalle persone che lo circondano, le sue reazioni sproporzionate.
E ciò rende la sua solitudine più angosciosa e disperata che mai. Perché egli non rinuncerà mai alle proprie convinzioni che lo esulano dal buon senso collettivo. Dio non esiste, ma è una disperazione il fatto che non esista. La vita non ha senso ed è proprio ciò che la rende terribile. E, guadagnati questi assunti, la stessa morale perde di significato.
Notizie terrificanti che determinano l’esistenza e alle quali sembra dar retta solo il nevrotico (o cinico, a seconda dei casi) attore principale. Il resto del mondo si fa scivolare via la vita farcendola di banalità e corsi di meditazione orientale. E tutto per loro sembra funzionare a dovere. Non fa eccezione “Basta che funzioni” l’ultima opera di Woody Allen da poco uscita nelle sale italiane.
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La trama, di impianto piuttosto teatrale, è sempliciotta. Boris Yellnikoff, un fallito e burbero studioso di fisica quantistica (Larry David), mancato premio Nobel e residente nel Greenwich Village di New York, si è appena separato dalla sua ultima compagna. Dopo un fallito suicidio è deciso a condurre il resto dei suoi giorni isolandosi in casa o uscendo a bere con i pochi amici intellettuali che gli rimangono. Ogni sua battuta è impregnata di un affascinante cinismo calibrato per menare fendenti su usi e costumi contemporanei, come ad esempio l’ossessivo e dilagante salutismo o il sentimentalismo che permea i rapporti amorosi. Una sera irrompe nella sua vita la bellissima Melodie (Evan Rachel Wood), una ragazzina di 21 anni totalmente spaesata e ignorante, che gli implora ricovero presso casa sua. La giovane è scappata di casa, dallo Stato del Mississipi, abbandonando l’oppressiva e bigotta famiglia e cercando miglior vita nella moderna e anticonvenzionale New York. Fra i due, manco a dirlo, nasce nel tempo una forte passione. La giovane, fin troppo svampita, si affeziona sentimentalmente al vecchio riconoscendo in lui un’indubbia autorità. Col tempo ne assimila i giudizi, pur non comprendendone il significato. Viceversa Boris trova nella ragazza una sorta di cuscinetto per le proprie fobie ossessive nonché un’ascoltatrice pronta a pendere dalle sue labbra.
Non saranno poche le occasioni in cui egli le farà presente tutti i luoghi comuni di cui la sua scarsa cultura è imbevuta, ma altrettante saranno le volte in cui Boris si sorprenderà per l’acutezza del tutto inaspettata di alcuni pareri espressi dalla sua giovane ospite. Il tutto sembra procedere nel migliore degli idilli, i due si sposano e paiono trascorrere una vita accettabile. Ma ecco fare irruzione i genitori della ragazza, esemplari di quella destra contadinotta e tanto facile da bersagliare, degli Stati del Sud. La comparsa di questi ultimi creerà uno scompiglio che non è il caso di approfondire, ci basti però sapere che entrambi, il padre e la madre di Melodie, si “convertiranno” alle idee politiche e sociali trasmesse dalla combriccola di Boris. Il primo scoprirà la propria omosessualità e la seconda troverà in se stessa la vocazione all’arte diventando un’apprezzata fotografa. Boris e Melodie si lasceranno, trovando altri compagni di vita, ma tutta la compagnia rimarrà unita in una sorta di calderone di amicizie.
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Sicuramente gli amanti di Woody Allen, fra i quali mi annovero, inorridiranno all’idea che nella descrizione iniziale di questo articolo si siano sorvolate miriadi di appunti e precisazioni sulla figura e le tematiche di questo genio. Se ciò è avvenuto lo si deve però all’idea di trarre una sola osservazione. La presunta banalità contro la quale il nostro si scaglia poggia fondamentalmente sulle convenzioni sociali. Le quali a loro volta, volenti o nolenti, poggiano su saldi principi religiosi o sedicenti “razionali”. Se il protagonista si sveglia nel cuore della notte urlando «l’orrore, l’orrore, ho visto l’abisso» (ottenendo un effetto comico straordinario, testimoni le risate nelle sale) è perché dell’orrore e dell’abisso, in quanto cinico esponente del nichilismo contemporaneo, egli ha una vera coscienza. Una coscienza vissuta. Questa, abbiamo detto, lo differenzia dalla massa che vive nella spensieratezza. Viene dunque da domandarsi il perché del titolo: “Basta che funzioni”.
Che cosa deve funzionare? Se infatti da un lato Allen/Boris critica la religione in quanto fonte di illusioni e generatrice di meschini poteri (e nel film lo fa più di una volta arrivando a pronunciare una delle bestemmie più gravi nella storia del cinema), dall’altro è vittima di un vuoto esistenziale dal quale nessuno degli appartenenti alla schiera dei normali non nevrotici, sebbene anch’essi atei, lo può consolare. Perché allora il film si chiude con una scena allegra, in cui la compagnia di sbandati sembra quasi aver trovato finalmente un degno modus vivendi, con in più la benedizione del vecchio burbero? Delle due l’una: o Boris si adegua ad essere anch’egli banale e a trascorrere una vita nella dimenticanza del problema esistenziale oppure compie un ultimo taciuto inganno, finge di aver trovato una soluzione: basta che funzioni. Va da sé allora che proprio l’unico fattore che discrimini realmente il protagonista dagli altri uomini non sia la sua coscienza del nulla e della vacuità delle cose, bensì la stessa religione che egli accusa, in ultima analisi, il problema di Dio. Perché è l’inaccettabile mancanza di senso, e quindi di risposta, a destare in lui l’ansia perenne, a non far sì che si accontenti di un amore umano, solo umano, e infine a salvarlo dal suicidio. Insomma non “basta che funzioni”, perché le cose comunque di per sé non quadrano. D’altra parte “Dio, la morte e il sesso” (l’amore) sono le tre problematiche e tematiche principali di Woody Allen. Egli ci scherza su, le dissacra come pochi sanno fare, ci gira intorno, ma non riesce ad abbandonarle. I tre misteri più grandi dell’esistenza non possono lasciare in pace una mente così sensibile. Egli farebbe di tutto per liquidarle accorgendosi che, come dice un pensatore a lui caro «se scruti a lungo l’abisso, l’abisso scruterà dentro di te». Ma, aggiungo umilmente, non è detto che questo abisso coincida con l’orrore.
(Ruggero Collodi)