Alla vigilia del conclave, la Chiesa cerca l’unità, e l’unità ha bisogno di un compromesso. Si cerca un profilo “pacificatore” che curi il governo

Non saranno la guerra e la pace a decidere in conclave chi sarà il prossimo papa, perché qualunque cardinale venisse eletto, seguirebbe il Vangelo. C’è invece la diffusa sensazione, secondo Philip Pullella, giornalista, corrispondente dell’agenzia Reuters per l’Italia e il Vaticano, che sia necessario “un periodo di calma”, una sorta di tregua nei processi avviati.



“Oggi l’unità richiede un compromesso” dice Pullella al Sussidiario, perché serve una unità che escluda il meno possibile, ma né i conservatori né i progressisti sono in grado di produrla. Un profilo centrista “servirebbe ad inaugurare un periodo di calma dove si parla di più e si accusa di meno”.

Innanzitutto, occorre conoscersi. “Molti cardinali non si conoscono bene, me lo hanno detto in diversi. Le occasioni per incontrarsi erano tradizionalmente i concistori ordinari, ma durante il pontificato di Francesco lo spazio a disposizione dei cardinali per vedersi e confrontarsi è stato molto ridotto”.



Per questo l’inizio del conclave è stato posticipato?

Sì ed è stata una buona idea. Ogni incontro supplementare è utile. È una differenza significativa rispetto al conclave del 2013.

Il successore ha la strada tracciata? La continuità, in altre parole, è già scritta?

No. Papa Francesco non ha cambiato la dottrina, è stato un pastore più accogliente e in questo è stato diverso dal passato, ad esempio verso le persone omosessuali. Quindi non sarebbe difficile per il prossimo papa, se volesse, rallentare o fare un passo indietro. Proprio perché Francesco ha innovato con i gesti.

Diversi porporati continuano a intervenire sulla stampa assumendo posizioni molto esplicite. Da cosa dipende?



L’utilizzo dei media da parte dei cardinali non è nuovo, è già successo nel 2013 e ancor prima nel 2005. L’unica differenza è che adesso ci sono molti più outlets, ogni giorno c’è un nuovo sito… Non tutti i giornalisti nuovi hanno la preparazione per fare il mestiere in un modo corretto, e questo diventa un pericolo.

I media cattolici?

Possono complicare il quadro. Sono schierati, parteggiano e si danno battaglia.

Ogni Paese si rispecchia nel conclave, e sulla stampa italiana si fanno soprattutto tre nomi: Parolin, Zuppi, Pizzaballa. Sono in corsa?

Nomi non voglio farne, ma c’è almeno un cardinale dei tre citati che ha una vera chance di diventare papa. E non solo perché è italiano.

Macron ha riunito i cardinali francesi, quasi a benedire il loro comune ruolo “transalpino”. 

Mi sembra un salto all’indietro, nel passato remoto, quando qualche sovrano cercava di influire sull’elezione. Un’operazione che lascia il tempo che trova.

Il quadro internazionale è molto più complicato rispetto al 2013. La guerra in Ucraina e quella in Terra santa potrebbero pesare sul profilo del Papa futuro? 

È un elemento al quale non darei una importanza decisiva. Mi spiego. Ogni papa, insieme all’annuncio della fede, impone a se stesso di favorire la pace, perché fa parte della missione cristiana. Quasi ogni papa nell’ultimo secolo si è misurato con le guerre. Penso al “never again war, never again war!” di Paolo VI all’Onu (4 ottobre 1965, nda), a Giovanni Paolo II che dovette affrontare la guerra in Iraq due volte. Portare la pace sarebbe sentito come urgenza profonda da parte di qualunque cardinale venisse eletto.

La riforma sinodale della Chiesa è un processo avviato ma non concluso. Quanto potrebbe condizionare la scelta del pontefice?

Sappiamo che qualsiasi processo iniziato da un Papa può essere rallentato dal successore. Detto questo, a mio avviso non è affatto scontato che il processo sinodale sia destinato a continuare con la velocità e l’intensità che forse voleva Francesco. Anzi, ho l’impressione che se la riforma dovesse rallentare, non sarebbe un problema per quasi nessuno.

Ci sarebbe un motivo per frenare?

Il motivo che vedrei sarebbe senz’altro l’unità della Chiesa.

Vorrebbe dire che serve tempo per riflettere?

Sì, perché oggi l’unità richiede un compromesso. L’unità come la vuole l’estrema destra sarebbe divisiva, ma vale lo stesso per l’estrema sinistra: sono due “unità” che escludono chi non la pensa come me. Dunque un profilo moderato sarebbe necessario proprio per ritrovare l’unità che tutti vogliono o dicono di volere. Servirebbe, un tale profilo, ad inaugurare un periodo di calma dove si parla di più e si accusa di meno. Va detto che viviamo in un tempo che sembra andare in direzione opposta.

A cosa ti riferisci?

A ciò che avviene oggi negli Stati Uniti. Dove la prima cosa da fare, invece di ascoltare, è diventata quella di attaccare. Innanzitutto sei il mio nemico: stabilito questo, possiamo parlare. Senza dialogo, anche la Chiesa rischia di ragionare così.

Forse non è solo questione di dialogo o di Trump. Perché Papa Francesco è entrato in collisione con un pezzo di mondo cattolico statunitense?

Per la chiara commistione di politica e fede, per motivi politici o per motivi religiosi, fatta da quel mondo. Che è nettamente minoritario, ma molto ricco e con un megafono mediatico molto potente. Il risultato è che la Conferenza episcopale degli Stati Uniti oggi è molto divisa. Il cardinale Wilton Gregory è stato di fatto l’unico a stigmatizzare l’utilizzo di spiacevoli “photo opportunities” in cui si usava la bibbia per ragioni politiche.

Come comincerà il conclave?

Come è già avvenuto in passato, e lo dicono le tante ricostruzioni non smentite: nel primo voto vengono calate le carte. Innanzitutto per sondare il terreno. Ma potrebbero esserci nomi votati per svariate ragioni personali: rispetto, stima, ringraziamento. Si voteranno cardinali che non hanno chance, ma tra questi alcuni potrebbero essere destinati a emergere. Io prevedo un conclave abbastanza breve, due o tre giorni massimo.

Anche i cardinali lo dicono. Vuol dire che c’è un orientamento abbastanza preciso. 

A mio avviso sì, un orientamento c’è. A meno che non cambi qualcosa nelle prossime congregazioni generali.

Fu proprio in una di queste riunioni che Bergoglio – già votato nel conclave precedente – attirò l’attenzione con un discorso molto convincente. 

Ma erano tempi diversi. C’era stata la rinuncia di Benedetto XVI, si vaniva da uno scandalo dopo l’altro, da quelli finanziari a Vatileaks. Sembrava che la Curia non funzionasse più. Si voleva un papa che venisse “da lontano” per voltare pagina.

Perché stavolta è diverso?

L’uomo “dalla fine del mondo” è stato papa per dodici anni e in molti adesso pensano che il “business at home” (gli affari di casa, nda), sia stato un po’ trascurato. È molto probabile che si cerchi di riportare il pendolo verso il centro, all’insegna dell’unità. Che non può essere quella di una parte imposta agli altri.

(Federico Ferraù)

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