MANIFESTAZIONE 22 DICEMBRE/ Il mito del’68 che nasconde un vuoto di speranza
Manca il futuro perché manca la speranza nel presente, afferma GIOVANNI GUT, di fronte ai disordini a Roma. Ma qualcuno ancora ricorda che tra poco nasce un bambino che cambia il destino dell’uomo

In un clima surreale il paese e la città di Roma attendono le manifestazioni degli studenti contro la riforma Gelmini che mercoledì sarà al vaglio del Senato. In questi giorni i dibattiti della politica, dei media, degli intellettuali sono gonfi di parole e concetti, di tesi e contro tesi, per tentare di spiegare il perché delle devastazioni della scorsa settimana, per cercare di capire le ragioni di una protesta che sfocia in pura violenza.
Di fronte a quanto accaduto è stato evocato di tutto – financo gli agenti provocatori infiltrati nei cortei –, è stato rispolverato un lessico da anni 70 che ormai viveva solo nei film e in qualche centro sociale di estrema sinistra, sono stati assunti atteggiamenti nei confronti della protesta che vanno dalla carcerazione preventiva al confronto e alla comprensione sempre e comunque. Per molti (adulti) è stato il ritorno ad un mai dimenticato sessantotto, al mitologico decennio (e poco più) che arriva fino ai primi anni 80, agli atteggiamenti ambigui dei tanti signor “Né né”, ad una stagione che sembra aver esaurito tutte le speranze e i sogni delle generazioni che l’hanno vissuta.
Certo possiamo fare tutti i distinguo di questo mondo, possiamo raccontare una versione aggiornata ai tempi di wikileaks della protesta o le differenze tra le generazioni dei social network e quelle dei centri sociali, ma l’Italia sembra un corpo che non ha mai del tutto debellato la malattia di cui è stato affetto e che ciclicamente vi ricade ai primi sintomi. È una crisi di futuro quella che vediamo sfilare tra le rovine della città eterna, o meglio, è una crisi di presente e di speranza. Manca il futuro perché manca il presente e manca la speranza nel presente, là dove il timore è l’orizzonte la vita si riduce a disgrazia da sopportare, ad una colpa da espiare.
Eppure da qualche parte c’è ancora chi testimonia che la vita è un viaggio pieno di meraviglie, che lo sguardo dell’uomo non è anzitutto offuscato dalle nebbie della noia ma risplende nello stupore. Da qualche parte ci si ricorda ancora che fra qualche giorno si celebra la nascita di un bambino, di come quel bambino nato in un luogo sperduto ha cambiato il destino dell’uomo e la sua storia. Forse qualcuno dovrebbe raccontare che se gli studenti potranno sfilare in corteo tra le strade di Roma, vedere quell’insuperabile bellezza di ere che si sovrappongono, è perché quando il luminoso impero cadde, proprio la fede in quel bambino dalle macerie di un mondo in rovina seppe costruire un grandioso futuro, quel futuro che è diventato la nostra storia, che è il nostro presente.
Alla disperazione gridata nelle piazze, nei media, alla disperazione che è la lezione ultima dei cattivi maestri, alla disperazione della cecità dei cuori aridi, forse bisognerebbe dire che c’è speranza perché c’è ancora una Roma in cui sfilare. Talvolta basta solo alzare lo sguardo e veder comparire all’orizzonte il Cupolone.
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