IL CAIRO (Egitto) — La ragazza indossa i pantaloni, una giacca stretta e uno chador verde brillante. E’ in tribuna, in piedi da ore e finalmente scatta il selfie atteso. Lei in primo piano mentre ammicca alla camera, sullo sfondo un cartonato che riproduce la skyline dei minareti di Al Azhar mentre flirtano con le colombe della pace e davanti le porte arabescate lui, quello che a distanza siderale sembra un puntino bianco. Da una parte l’Egitto reale, l’ultima generazione che la primavera araba non l’ha vissuta perché non aveva l’età e dall’altra il pontefice che crede nell’islam moderato, nella necessità di gettare ponti piuttosto che erigere muri e che vive la sua prima vera giornata araba in Egitto, terra di sapienza e di alleanza.
Il luogo è il Conference Center di Al Azhar, la sala scelta dalla sicurezza per consumare l’incontro pubblico più atteso, quello tra il papa che porta il nome del Santo che per primo incontrò un Sultano e il variegato e inscatolabile mondo sunnita, porzione vasta, quasi oceanica dell’ancora più incontenibile universo islamico.
Al Azhar, il prestigioso ateneo che ha combinato una conferenza di Pace per ospitare Bergoglio porta nella sua storia le cicatrici delle lacerazioni tra i credenti in Allah. Nata nel 970 per volere di un califfo discendente dalla figlia minore del Profeta, Fatimah, era originariamente inserita nella tradizione sciita ismailita, fu Saladino che conquistò l’Egitto nel 1171 a convertirla in centro di formazione teologica, culla del diritto islamico e di studi arabi.
Proprio Al Tayyeb, il rettore che siede su uno dei chiassosi troni dorati accanto al Papa, è colui che ha definito i contorni della comunità sunnita, trattenendo seguaci del sufismo e delle quattro scuole giuridiche (Malikita, Hanafita, Shafeita e Hanbalita) e lasciando fuori i Wahabiti, riformatori legati al regno saudita. E’ sempre lui quello del battibecco con Ratzinger per una presunta ingerenza dell’allora pontefice dopo il drammatico attentato di Alessandria nella notte di capodanno del 2011. Nominato da Mubarak, oppositore del Fratelli Musulmani, ambiguo nel giudizio sulle primavere arabe, e decisamente poco neutrale nel puntellare il discutibile presidente Al Sisi, ma moderato e dialogante con l’Occidente, fermo nella condanna del takfir, l’atto di dichiarare qualcuno apostata per poi punirlo, pratica in uso dai movimenti terroristici come Al Qaida e Isis. Insomma l’interlocutore obbligato per chi come Francesco vuole creare amicizie solide e inequivocabili.
E qui, insieme ai fratelli che lo hanno raggiunto da Costantinopoli e da Alessandria, il complice di sempre Bartolomeo I e l’amico da consolare, Tawadros II a capo di una chiesa fiera della sua identità come quella copto-ortodossa, il Papa pungola quell’islam che fatica a condannare prontamente la violenza e il terrorismo, che chiude un occhio sulle violazioni dei diritti umani, e che ancora non ha elaborato il confronto dialettico con la modernità. Ovviamente tutto avviene alla maniera di Bergoglio, non agitando il dito ma porgendo la mano. La fermezza è solo nel condannare senza appello tentativi di giustificare il terrorismo tirando in ballo la religione. Fa cadere la maschera sulla violenza che si traveste di sacralità e strappa gli applausi convinti della tribuna quando invita i leader religiosi presenti a denunciare le violazioni dei diritti umani e della dignità della persona. Coraggioso a farlo nel paese dove ha trovato la morte, ancora senza un perché, Giulio Regeni.
Il suo è un discorso alto, ben articolato, esigente, non politico ma propriamente e totalmente razionale. Sia quando invita a non correre ad armarsi sia quando spiega di cos’ha bisogno il pianeta: costruttori di pace e non provocatori di conflitti, pompieri e non incendiari, predicatori di riconciliazione e non banditori di distruzione.
Non è certo quanto abbiano capito del discorso in italiano Imam e Ulema che non predicano se non in arabo. Ma sono stati proprio i giovani studenti del loggione ad applaudire di più, ragazze velate e uomini senza barbe che provenivano da ogni angolo del mondo. Ed è quello il segno che Francesco alla corte del Sultano è già arrivato. L’islam di domani ha ascoltato le sue parole di pace, il suo goffo saluto in arabo, la denuncia del traffico di armi e delle “torbide manovre che alimentano il cancro della guerra” e ha già deciso che gli si può dare una chance. In uno scatto c’è il riconoscimento di un’autorità che sarà pure Pop ma che convince.