LETTURE/ “Se nessun dio interviene nelle cose umane, a chi indirizzerò le mie preghiere?”

- Giuseppe Fidelibus

La coscienza religiosa di Apuleio "chiede" una relazione vivente con la verità del divino che travalichi le forme del culto idolatrico. Terza puntata dell'articolo di GIUSEPPE FIDELIBUS

rublev_cristosalvatoreR439 Andrej Rublëv, Cristo Salvatore (XIV sec.) (Immagine dal web)

Un secondo tratto della coscienza religiosa pagana con cui dialoga san Paolo ci viene offerto da un passo del De deo Socratis del platonico africano Apuleio, scritto nel II secolo d.C. Vi si legge: «Come dice lo stesso Platone, nessun dio si mescola agli uomini; ed anzi la caratteristica precipua della loro sublimità sta proprio in questo, che non si contamina di nessun contatto con noi (…) Ma dunque — potrebbe obiettare qualcuno — cosa mai dovrò fare, o oratore, dopo questa tua sentenza celeste sì, ma quasi inumana, se gli uomini vengono ad esser così del tutto respinti lontano dagli dèi immortali, e relegati entro questo inferno della terra in tal guisa che è negata loro ogni comunione con gli dèi celesti, e nessuno tra i celesti viene a visitarli ogni tanto come un pastore o uno scozzone di cavalli o un bifolco fa con le mandrie (…) per moderar chi è selvatico, curar chi è malato, aiutar chi è bisognoso? Nessun dio — tu dici — interviene nelle cose umane. A chi dunque indirizzerò le mie preghiere? A chi, nominandolo, farò un voto? Per chi immolerò una vittima? Chi invocherò per tutto il corso della mia vita come soccorritore degli infelici, sostenitore dei buoni, oppositore dei cattivi? E chi infine assumerò quale testimone per i giuramenti? (…) Cosa pensi a questo proposito? Dovrò giurare per “il sasso Giove” secondo l’antichissimo rito romano? In ogni caso, se è vera l’opinione di Platone, secondo cui la divinità non comunica mai con l’uomo, più facilmente potrebbe udirmi un sasso che non Giove».

Anche qui la coscienza religiosa del retore pagano segnala esigenzialmente l’emergenza di una mancanza: quella di una relazione vivente con la verità del divino che travalichi, inverandole, le forme del culto idolatrico in cui viene recluso. La pietrificazione idolatrica del religioso nel culto (cfr. nel testo di Apuleio la sordità del “sasso Giove”) contravviene all’economia intrinseca alla libertà “religiosa”. In assenza di un tale rapporto fondativo questa soffre inevitabilmente la disumanizzante connivenza con schiavitù, infelicità e menzogna. La posizione — filosoficamente platonica — di Apuleio testimonia di una libertà che nasce dalla coscienza che non si danno luoghi (pratiche, culti) che assicurano automaticamente ed impersonalmente il rapporto col divino. Essa invoca una pertinenza (esplicita e personale) diretta del divino con la totalità di senso della vita giuridica della coscienza: atti, rapporti, giuramenti, contratti, sacrifici, aiuti. Quel rapporto sta solo come ordine vitalmente inerente, nell’esperienza, a tale vita: come fondamento normativo irriducibile di quegli atti. 

Se c’è, dunque, una “fermezza” della coscienza espressa da Apuleio come “eredità della tradizione greca” (Belohradsky) essa risiede nella coscienza della precarietà cui essa soggiace in assenza di quel fondamento. In questo senso, il De deo Socratis attesta infatti come la libertà religiosa, quando è tale, implica una coscienza esigente ed operante nelle scelte, negli atti e negli ordinamenti del vivere quotidiano. Essa è vita giuridica implicante una socialità sempre pubblicamente riferibile. La libertà religiosa, fondata su di una coscienza così intesa, non è mai una libertà “privata”: essa s’incarna sempre socialmente, come fattore creativo e fecondo di socialità. Lo esige per intrinseco statuto normativo. 

In questo senso l’annuncio cristiano di un Dio che s’incarna nella comune esperienza, “immischiandosi” liberamente e comunicando personalmente — come uomo — con la vita storico-giuridica degli umani soggetti appare subito nella sua pertinenza alla coscienza dell’uomo pagano. Difendere e promuovere oggi il diritto alla “libertà religiosa” comporta l’ammettere — legislativamente oltre che in senso genericamente “culturale” — la legittima dimensione sociale e pubblica della coscienza che ne è il fondamento. In questo senso possiamo pacificamente dire che il cristianesimo non ha salvato la religione dall‘uomo antico bensì ha salvato — con beneficio giuridico universalmente riconoscibile — l’uomo antico dalle sue derive religiose. Aggiungo che ciò poteva e può accadere non contro l’uomo pagano di ora e di allora, ma assumendone a suo vantaggio l’eredità e la compagnia di coscienza e di ragione di cui si rendeva e si può oggi rendere protagonista. Veniamo ora al mutato contesto della patristica cristiana.

(3 — continua)





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