Un magnifico testo autocritico di Marc Bloch sulla guerra è ancor più eloquente se letto insieme alla denuncia di Erasmo da Rotterdam
La strana disfatta è l’opera di uno dei più grandi maestri della cultura storica dell’ultimo secolo: Marc Bloch. Era uscita postuma nel 1946, all’indomani della guerra che, nelle convulsioni del suo ultimo anno, aveva finito con lo spezzare la vita dell’autore, caduto vittima della repressione dei movimenti di resistenza al regime di occupazione nazista.
A distanza di tanti anni, il libro conserva una sorprendente attualità, rilanciata dalle drammatiche circostanze che dominano la geopolitica del nostro presente. Lo si può rileggere ancora oggi con sicuro profitto, magari unendolo alle altre pagine dedicate dall’illustre studioso alle ripercussioni della violenza militare sulla mentalità e la cultura di una comunità sociale, come ad esempio la Riflessione d’uno storico sulle false notizie della guerra, che risale al 1921.
La strana disfatta assume la forma di una nuova, vibrante “réflexion” a caldo, scritta di getto nei mesi immediatamente successivi allo sfondamento delle linee di difesa dell’esercito francese, travolto dall’impetuosa avanzata delle armate tedesche, a partire dalla fine del maggio 1940, armate che poi avevano potuto dilagare dal confine fiammingo verso il nord e l’ovest del Paese, costringendo la Francia alla firma dell’armistizio del 22 giugno.
Animato da un vivo sentimento patriottico di energico stampo borghese, il capitano Marc Bloch non aveva voluto sottrarsi alla mobilitazione per la salvaguardia della nazione in pericolo, anche se già si era cimentato in prima persona nel precedente conflitto della Grande Guerra del 1914.
In questa seconda occasione, l’esito a cui il professore-soldato si era trovato di fronte era però radicalmente diverso da quello che aveva poi condotto alla vittoria degli Alleati nel 1918. Ciò di cui Bloch era stato testimone per il momento era solo un “grande disastro”. Proprio per questo, uscito indenne dall’“inferno delle Fiandre”, aveva sentito l’urgenza di riconsiderare con assoluta onestà le ragioni di una tragedia che presentava, ai suoi occhi colmi di delusione, contorni “incredibili”.
Il punto di forza dell’analisi proposta è la trasparente franchezza che la caratterizza. Le guerre sono un precipizio in cui si può essere costretti a scivolare nei momenti di più aspro contrasto fra gli Stati. Ma si possono anche perdere, o comunque non è da escludere che rischino di imporre risultati largamente inadeguati rispetto all’enormità dei costi sopportati e dei danni subiti, in termini di sacrifici di vite umane, di dissipazione delle risorse, di alimentazione di ulteriori motivi di contrapposizione polemica e di rancore esplosivo, che minano alla radice ogni tentativo di ristabilimento di una coesistenza pacifica.
Bloch riconosce tutta la dolorosa gravità della piega negativa presa dalle battute di avvio del secondo conflitto mondiale. Non la camuffa, non la manipola ideologicamente per fini di apologia della parte soccombente: accetta di farci i conti e cerca di comprendere le cause degli eventi, così come si erano realmente verificati, per ricavare una lezione di utilità anche dal fallimento di strategie dimostratesi rovinosamente inefficaci.
In primo luogo mette sotto accusa “l’incapacità del comando”: i vertici dell’apparato politico-militare francese non avevano saputo “pensare” in modo vincente il freno da opporre all’esercito invasore. Ѐ un deficit innanzitutto intellettuale quello emerso alla prova dei fatti. La lentezza dei meccanismi decisionali in mano a una élite gerontocratica, l’impaccio nei trasferimenti di truppe e nel dispiegamento degli armamenti richiesti dalla guerra moderna, l’attaccamento tradizionalista agli schemi delle tattiche belliche del passato sono gli elementi di una spiegazione spietatamente realistica, che poi chiama in causa l’insufficiente solidità di una coscienza collettiva attaccata alle vere radici di un patrimonio identitario da difendere, nello stesso tempo aperta ad accogliere le novità inesorabilmente introdotte dalle trasformazioni del contesto generale del vivere.
Non interessa qui riprendere le proiezioni verso il futuro che nella mente di Marc Bloch si configuravano come lo sbocco necessario verso cui inoltrarsi per rimediare alla sconfitta. Il suo patriottismo di fondo non ne uscì demolito. Dai rovesci abbattutisi sui campi di battaglia ci si poteva sollevare, dal suo punto di vista, solo con un ricompattamento delle forze ostili all’espansionismo del Reich hitleriano, ribaltando lo squilibrio che aveva messo sotto scacco la fragile Grandeur erede del tricolore rivoluzionario.
Nelle condizioni storiche del 1940-45 questo tipo di scelta doveva essere difficilmente evitabile. Sorprende tuttavia non poco che nella prospettiva di giudizio adottata dall’insigne esperto di storia risulti completamente eclissata ogni riconsiderazione più intransigente sul valore della guerra come strumento di risoluzione delle contese internazionali. Il problema della legittimità/illegittimità della guerra in quanto tale e – prima ancora – dei modi in cui la si può gestire è rimosso a piè pari. Ignorando tale questione radicale, si resta inevitabilmente imbrigliati nella logica del ricorso alla violenza come rimedio privilegiato per la difesa dei diritti e degli interessi nazionali basata sui rapporti di forza.
Il risultato è che il discorso pubblico sulla moderna ragione di Stato rifiuta per principio di confrontarsi con la grande tradizione culturale dell’umanesimo impostato sulle linee del dialogo costitutivo con il retaggio dell’etica cristiana: quella che, nella scia della fioritura rinascimentale, aveva promosso all’interno del contesto europeo una coraggiosa presa di distanza critica dalla consacrazione della guerra come arma universalmente accettata per dirimere i contenziosi fra i grandi corpi politici in lotta contro i loro avversari.
La sottrazione di fiducia nei confronti della liceità della guerra era certamente rimasta una posizione minoritaria, più una denuncia profetica che un orientamento cordialmente condiviso. In ogni caso un no alla guerra era stato formulato, ai più alti livelli della cultura intellettuale europea. Ed è tragico constatare fino a che punto sul filo dei secoli, esattamente come continua ad avvenire oggi, la vocazione del realismo pacificatore sia stata sistematicamente elusa nelle sue rivendicazioni di superiorità morale e, insieme, di ultima convenienza per il bene comune dei popoli.
La congiura del silenzio ne ha promosso una rimozione pressoché generalizzata, che perdura nel dibattito dell’Occidente contemporaneo sul governo della convivenza multipolare, piegato decisamente a favore della minaccia reciproca come forma di deterrenza risolutiva, ossessionato dal potenziamento dell’aggressività e ostile alla ricerca del compromesso tra blocchi contrapposti che devono comunque trovare il modo di bilanciarsi a vicenda nei diversi spazi del teatro planetario, lungo le faglie più instabili dei loro delicati punti di contatto.
La voce di questa propensione etica e civile al rifiuto della violenza fisica della guerra era affiorata in modo stupendamente clamoroso nella sintesi intellettuale di Erasmo da Rotterdam, agli inizi del cammino di sviluppo della modernità.
Il suo splendido “adagio” sul volto demoniaco del ricorso alla forza distruttiva dello scontro armato, che piace solo a chi non ne fa diretta esperienza (Dulce bellum inexpertis: “chi ama la guerra, non l’ha vista in faccia”), rimane la punta luminosa di una saggezza forgiata dal senso religioso che si fa amante del bene supremo della pace proponibile all’umanità intera come ideale da perseguire. Quello di Erasmo era un radicalismo umanistico, nutrito dalla filosofia degli antichi, che si coniugava con la coerenza evangelica del precetto della carità elevato a norma del comportamento umano più ragionevole.
La politica odierna, invece, sembra lontana anni luce dal prendere sul serio la provocazione di ogni slancio utopico che miri a raffreddare la competitività e a ricercare la coesistenza dei diversi nel quadro di uno scenario in perenne tensione.
Così l’esasperazione del conflitto e l’incontrollata violenza omicida rischiano di rimanere l’opprimente prezzo da pagare per un tutt’altro che credibile inseguimento delle “magnifiche sorti e progressive” di una porzione isolata di mondo, schierata contro le altre ritenute inconciliabili con un destino da spartire in condominio.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
