I vescovi del Myanmar hanno diffuso un documento in cui esortano a non lasciarsi vincere dall'odio e dalla disperazione. Tutti dipende da "cuori nuovi"

Caro direttore,
dopo lungo tempo mi rifaccio vivo con te sperando che la finestra di visibilità che tu offri possa aiutare i cristiani e tutto il popolo birmano.

Ti scrivo perché è uscito in questi giorni un comunicato di tutti i vescovi birmani che, se puoi, allega a questo mio scritto. Questa volta non sono fonti ufficiose o da verificare. La situazione descritta dai nostri pastori rappresenta appieno lo stato delle cose. La conclusione del documento indica una via. Certo difficile e irta di ostacoli, ma l’unica possibile. Mi permetto di citarla integralmente.



“Non è il momento di arrendersi. È il momento di scavare più a fondo. Dobbiamo trovare il gioiello della speranza tra le ceneri del dolore. La pace è possibile, la pace è l’unica via. Non permettiamo all’odio di definirci. Non lasciamo che la disperazione vinca. Agiamo con i principi della ‘compassione in azione, verità nella dolcezza e pace instancabile’. Che il nostro Paese, lacerato da tante ferite, possa risorgere. Che si rinnovi non solo con edifici, ma con cuori nuovi. Che le voci dei nostri figli e nipoti possano un giorno dire: ‘Non hanno smesso di cercare la pace, così noi siamo potuti tornare a casa’”.



Ma quali sono gli ostacoli che impediscono al fondo una svolta in Birmania?

Problema n. 1:  In uno stato federale disorganizzato, l’esercito si è sempre posto come elemento d’ordine e unico punto stabile, strutturato e organizzato. Fin tanto che ai vertici dell’esercito c’erano dei galantuomini (il padre di Aung San Suu Kyi) tutto andava bene, ma venuto meno questi, la tentazione del potere assoluto, si è infiltrata nei gangli del comando. L’esito è che il potere militare e quello politico coincidono. Se non si risolve questo punto, la situazione è destinata a peggiorare.

Problema n. 2: Checché se ne dica, tra le varie etnie della Birmania rimangono asti e rancori su cui subdolamente i militari fanno leva fomentando divisioni.



Generale Min Aung Hlaing, leader del Myanmar (ANSA-EPA 2025)

Problema n. 3: Ai capi delle milizie etniche manca il senso dello Stato. Sono solo interessati a difendere il loro piccolo potere. Piaccia o non piaccia, questi fanno solo azioni di disturbo. Gli interessa avere percentuali (chiamiamole più correttamente: tangenti o dazi impropri) per il transito sul loro territorio di ogni bene. Alla fine, ai capi delle milizie etniche questa situazione va bene: i loro conti in banca aumentano e con essi il loro potere.

Problema n. 4: Il Myanmar è il Paese vitale per la Cina per accedere all’Oceano Indiano senza passare per lo Stretto di Malacca controllato dagli Usa. Il Grande Vicino ufficialmente è neutrale, ma nessun cambiamento nella sua area “di competenza” può avvenire senza il suo placet.

Problema n. 5: Il Myanmar è un Paese quasi totalmente buddista. Le chiavi della “sala del trono” sono nelle mani dei monaci buddisti. Ma un “clero” buddista totalmente assoggettato al potere politico e con finalità puramente consolatorie, ben si guarda dall’organizzare azioni di protesta, come quelle che permisero in passato la liberazione di Aung San Suu Kui e la svolta democratica.

La complessità di questi problemi evidenzia come essi non potranno evidentemente essere risolti da un solo attore. Tantomeno dai soli cristiani del Myanmar (siamo l’1% della popolazione). Possiamo solo costruire “pezzi di umanità diversa”.

Un’altra cosa: nella sua drammaticità, questo potrebbe essere un momento favorevole per l’evangelizzazione. Solo i cristiani hanno una visione non fatalistica, ma costruttiva in ogni circostanza. Davvero, qui più che mai, la frase detta da un prete brianzolo a La Thuile, acquista una concretezza inimmaginabile: “La circostanza è fattore essenziale e non secondario della propria vocazione”. A risentirci. Spero.

(Un lettore dal Myanmar)

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