La terza guerra mondiale a pezzi si allarga. Si muore ovunque, da Gaza all’Iran. C’è una causa per cui vale la pena spendere la vita?
“Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò!” Così recita una delle parti più discutibili del nostro trascinante inno nazionale. Ora che è cominciato un altro pezzo della terza guerra mondiale – prima con l’attacco di Israele all’Iran, e poi con il bombardamento da parte degli Stati Uniti – a parte tutte le valutazioni politico-strategiche che lascio agli esperti, si impone una domanda: noi, a prescindere dalla chiamata dell’Italia, siamo “pronti alla morte”?
È evidente che questa tocca sempre più frequentemente non solo ai soldati, persone comunque come noi, nostri figli. Avvenimenti come i bombardamenti sui civili a Gaza e sull’Ucraina, attentati come quello contro gli israeliani il 7 Ottobre, ma ancor di più quelli dell’11 settembre 2001 a New York e poi quello al Bataclan di Parigi nel 2015, ci fanno capire che la morte violenta non ha confini. Senza dimenticare quella che viene procurata in tante nostre case anche tra persone che si erano amate.
Ci sono certo alcuni, i terroristi kamikaze, che sono pronti alla morte, la loro, dopo averla procurata ad altri. Certo noi diciamo, anche giustamente, che sono fanatici, ma altri, anche loro un po’ fanatici, li chiamano martiri: cioè testimoni del fatto che c’è una causa per cui vale la pena di sacrificare la vita.
Anche noi, purtroppo, abbiamo gente, anche giovane, che si suicida. Molti, troppi. Non vogliono essere testimoni di una presunta giusta causa. Spesso sono testimoni del nulla in cui sono caduti, magari dopo averci trascinato altri.
C’è persino qualcuno che non ha neanche trent’anni e che si rivolge ad un’agenzia per il suicidio assistito, senza avere una malattia inguaribile, se non la peggiore, quella di aver perso il senso della vita.
C’è un momento nell’Otello di Verdi, libretto di Arrigo Boito, che forse ci può aiutare a capire. È Jago, il genio del male, il demonio, che parla. Dice in un monologo drammatico dell’atto secondo, scena seconda:
“E credo l’uom gioco d’iniqua sorte.
Dal germe della culla al verme dell’avel.
Vien dopo tanta irrision la Morte.
E poi? La Morte è il Nulla
E vecchia fola il Ciel”.
Noi sappiamo, perché lo crediamo ragionevolmente, che il Cielo non è follia, ma quello a cui per natura, anche inconsapevolmente, l’uomo aspira. Noi siamo responsabili di testimoniare una vita che, pur consapevole di dover fare i conti con la morte, valorizzi fino in fondo i segni della promessa che un destino buono è possibile per tutti.
Va bene, prepariamoci pure alla guerra. Tra l’altro, recentemente ho scoperto che sotto il Santuario di San Giuseppe a Milano c’è un bunker niente male. Intanto non dimentichiamoci di diffondere quella gioia che deriva dall’Unico che dopo aver provato la morte nel modo peggiore, l’ha vinta e non solo per Sé.
P.S.: per essere ospitati nel mio bunker occorre prenotarsi per tempo presso la redazione del Sussidiario. Fino a esaurimento posti. Per quelli in paradiso, invece, non ci sono limiti.
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