Si avvicina la data del 2 aprile e Trump dovrà stare attento a non alimentare coi dazi un rialzo dei prezzi che sarebbe dannoso per l'economia americana

Mercoledì prossimo 2 aprile scatta quello che Donald Trump ha battezzato l’independence day. Indipendenza da che cosa? “Ci hanno sfruttato per 40 anni, non succederà più”, ha sentenziato il Presidente a bordo dell’Air Force One che lo portava a Mar-a-Lago. Il plurale è riferito a tutti i Paesi del mondo, ma soprattutto ai Paesi che sono stati e sono ancora alleati e amici. Il Canada per esempio.



Una lunga conversazione con Mark Carney, l’ex banchiere diventato Primo ministro che s’appresta ad affrontare elezioni il 28 aprile, è stata definita costruttiva, ma non è servita a smontare il progetto trumpiano. “Reagiremo”, ha dichiarato Carney. Toccherà anche all’Europa, non solo all’Unione europea che Trump non considera un soggetto politico, ma a ogni singolo Paese, senza escludere nemmeno la Gran Bretagna.



La tentazione è di rendere pan per focaccia, risponde con dazi contro dazi, una strategia pericolosa che innesca una spirale che finisce in recessione mondiale. L’altra strada è avviare negoziati Paese per Paese, settore per settore se non proprio impresa per impresa. Ciò vuol dire che per mesi e mesi il sistema economico internazionale diventerà un insieme di tribunali del commercio e anche questo avrà un effetto negativo. A Bruxelles stanno discutendo, ma non è emersa nessuna scelta comune. Il Giappone ha reagito con dichiarazioni di fuoco, ma nemmeno Tokyo sa che cosa convenga fare.



Trump ha detto di non essere contrario a negoziare, ma dopo il 2 aprile: vuole il suo show, la sua dimostrazione di forza. E sta vendendo una bugia per verità: se la prende con l’Iva pagata in Europa considerandola come un dazio sulle imprese americane, invece è una tassa pagata da tutti, forse sarebbe meglio che non ci fosse, ma non c’è nessuna discriminazione merceologica o nazionale.

Le imprese americane sono state penalizzate rispetto a quelle europee e cinesi? “Forbes” ha analizzato i bilanci nel 2022 delle duemila più grandi imprese mondiali in 27 settori industriali e ha calcolato la quota di profitti e l’ha divisa tra società americane, dei Paesi alleati e della Cina. Ecco che cosa ne viene fuori: nel software e nei servizi delle tecnologie informatiche, le aziende americane hanno ottenuto l’80% dei profitti globali, alle altre sono andate le briciole (appena il 7% alle imprese cinesi); nei servizi finanziari gli Usa hanno incassato il 70%; nell’aerospaziale e nelle difesa il 66%; nella farmaceutica e biotecnologie il 60%; nei semiconduttori il 58% e via via.

I Paesi alleati sono più forti nelle telecomunicazioni, nella chimica, nelle assicurazioni, nel trading. Per quel che riguarda la Cina primeggia nelle banche, ha una quota importante nei beni capitali e nelle assicurazioni (rispettivamente il 23% e il 17%).

Che cosa ci dice questa classifica? Che la narrazione trumpiana non regge. Le imprese a stelle e strisce nel loro insieme hanno incassato il 38% dei profitti generati dalle più grandi duemila imprese del mondo, il 35% è andato nei Paesi alleati e il 16% in Cina, compresa Hong Kong. Ciò non minimizza la sfida cinese, che non è solo economica, ma politica, militare, ideologica persino, però smentisce l’immagine di declino americano o di penalizzazione del made in Usa. L’America è ancora grande. Trump la vuol rendere ancora più grande, ne ha il diritto e il potere, ma è tutt’altra storia.

Sarebbe interessante se questa analisi di “Forbes” venisse presa dai futuri negoziatori. In tal caso sarebbero gli Stati Uniti a dover ridimensionare il loro predominio nei settori oggi trainanti, cioè le tecnologie informatiche o la stessa difesa dove come si vede i Paesi alleati pagano fior di miliardi alle imprese americane. È giusto dire che gli alleati dovrebbero spendere di più, ma Trump vuole che spendano in armi americane.

Non mancano insomma i buoni argomenti per contrastare le pretese dell’Amministrazione Trump, il Presidente non ha nessuna voglia di ascoltarle, tuttavia sarà costretto a farlo, anche per lui sarà necessario un bagno di realtà. L’importante è che i Paesi alleati si mostrino fermi e non cominci una sorta di “guerra tra poveri” o meglio tra clienti per accaparrarsi i favori e le fette migliori delle torte. È questo il pericolo che corrono anche i 27 Paesi dell’Ue, a partire da quelli più deboli e più esposti.

L’Italia è tra questi e viene subito dopo la Germania in molti settori, visto che è il secondo Paese manifatturiero d’Europa. L’industria automobilistica tedesca verrà colpita e trascinerà con sé l’intera filiera della componentistica nella quale l’Italia ha un peso rilevante. Oltre alle meccanica in Italia sono molto esposte la farmaceutica, l’alimentare, la moda.

Ricordiamo che l’Istat ha calcolato in 23 mila le imprese più vulnerabili. Una cifra importante anche se solo lo 0,5% del totale per il 3,5% del valore aggiunte e il 16,5% dell’export totale. Tuttavia, bisogna guardare all’impatto dei dazi in modo dinamico, non statico, il sistema produttivo è interconnesso e le imprese reagiscono alle aspettative. Lo si vede già: l’incertezza su quel che potrà accadere sta limitando gli investimenti e calano anche i prestiti bancari.

Prendiamo il caso di Ford e General Motors, all’esame del loro dna nazionale sono risultate più americane di McDonald’s, eppure sono state già pesantemente penalizzate in borsa. La Ferrari ha anticipato i tempi aumentando i prezzi del 10%, di per sé riguarda solo gli straricchi, in realtà è un segnale più generale e un esempio per tutti. Trump se l’è presa, ma l’impatto della sua politica sarà proprio questo: più inflazione e meno crescita anche negli Stati Uniti dove ormai si parla se non di vera e propria recessione di un ritorno della stagflazione.

A quel punto anche i profitti delle imprese americane, quei super profitti calcolati nel 2022 da “Forbes” saranno a rischio, non per qualche complotto nemico, ma per gli errori del Comandante in capo.

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