Il ddl sul fine vita sarà rinviato a settembre, ma il confronto continua. Il fronte medico si concentra sul dolore, quello giuridico sull’autodeterminazione

Sono prevalentemente due le aree culturali che finora si sono confrontate sul tema del fine vita e sulla legge relativa: l’area medica e l’area giuridica, con differenze che in alcuni momenti appaiono come vere e proprie divergenze, a tratti, almeno apparentemente, insanabili.

Il fronte medico

Sul fronte medico il tema si concentra prevalentemente sul dolore, un dolore refrattario a trattamenti clinici specifici che può indurre il paziente a desiderare la morte.



Non a caso è una delle condizioni poste dalla sentenza 242/2019 della Consulta. Un dolore che per il paziente spesso comporta la consapevolezza della perdita di autonomia e coinvolge una drammatica sensazione di essere di peso per i familiari.

Due condizioni che non di rado fanno trapelare il timore di poter essere abbandonato, e quindi il desiderio di anticipare la morte, prima che tutto ciò si verifichi. Una condizione complessa di disagio che i medici da tempo hanno cercato di affrontare dando vita ad una medicina su misura per questi pazienti, la medicina palliativa.



Una medicina che sa bene di non poter promettere nessuna possibile guarigione, ma che intervenendo sul disagio complessivo del paziente cerca di trovare soluzioni su misura per lui e per i suoi familiari.

L’obiettivo è rendere sopportabile il dolore e la sintomatologia specifica del suo disagio, per rendere più serena la sua vita dando valore alle cose che desidera, a quelle di cui percepisce di aver bisogno sul piano materiale e spirituale, affettivo ed emotivo. Nella medicina palliativa nessun bisogno del paziente è ignorato, e il personale, pur consapevole dei suoi limiti, moltiplica gli sforzi per andar incontro ai desideri del paziente al fine di rendere questo spazio e questo tempo il più sereno e il più gradevole possibile.



Si può attendere la morte riconciliandosi con la vita, insieme a chi si ama e a chi ci ama. La medicina palliativa non si è limitata a fare una diagnosi e a fissare una prognosi, ha messo in gioco tutti gli strumenti possibili per creare una cura su misura per ogni paziente. Non è sempre così, ma è ciò che si desidera che avvenga: prendersi cura dei malati nella loro singolarità, ma anche nella pienezza della loro umanità, rispettandone esigenze e perfino piccole manie, senza giudicare, solo sforzandosi di andargli incontro per non lascarlo solo.

La medicina, partendo dalle condizioni del paziente e dalla consapevolezza che vita e morte appaiono nella nostra vita sempre un po’ a sorpresa, si è sforzata in questi anni di accompagnare il paziente, stando accanto a lui, senza lasciarlo solo e facendo quel che può in una logica di solidarietà piena e condivisa.

Umanità, scienza e tecnica si sono fatte in quattro nella medicina palliativa per superare lo scoglio del malessere più pesante dei nostri tempi, l’individualismo, che genera egoismo e inevitabilmente conduce all’isolamento e alla solitudine.

Il fronte giuridico

Sul fronte del diritto a me sembra che tutto giri invece intorno ad un unico principio: quello dell’autodeterminazione, al diritto di affermare la mia volontà a prescindere da chi mi sta accanto.

È il mio io che cerca spazio per marcare il territorio e riaffermare il diritto a stare dove e come voglio, vivendo a volte con insofferenza quella dimensione umana che si traduce in ascolto, confronto, condivisione. Capacità di riconoscere che ho bisogno degli altri e che gli altri hanno bisogno di me.

In ogni dibattito in cui medici e giuristi si trovano a parlare di fine vita, mi sembra che l’argomentazione principe del giurista sia l’affermazione dell’io, come padrone assoluto delle sue scelte, senza nulla riconoscere alle paure e ai desideri del paziente, piccoli o grandi che siano.

Sembra esserci solamente questa ostinazione nel ribadire il primato della volontà, che, se pur importante sul piano giuridico, appare comunque del tutto disincarnata rispetto alla globalità dell’uomo, alla sua unicità che è fatta anche di passioni e di illusioni, di sogni e di speranze. Nel dibattito con alcuni colleghi di area giuridica, soprattutto se favorevoli al suicidio assistito o all’omicidio del consenziente, il diritto viene spesso usato come una clava che impone il suo primato; senza sfumature; senza la consapevolezza del mutare dei giudizi che ogni uomo sperimenta nella sua vita.

Il sì alla morte, bruciante e definitivo, diventa l’espressione in cui si ricapitola tutta la vita di un uomo, che tante volte invece ha detto sì alla vita, godendone delle cose belle e soffrendo per altre meno buone.

Il principio di autodeterminazione, l’affermazione puntuale e irrevocabile di chi decide di anticipare la sua morte, cancella in un solo tratto una intera storia di vita, con le sue naturali contraddizioni, con i suoi dubbi e con quella volontà, così umana e così mutevole, che ogni giorno lo ha messo in condizione di ricominciare a vivere.

Essere in relazione

Al centro dell’esperienza medica, mi sembra, c’è pur sempre la pietas di chi difronte al dolore e alla sofferenza non si dà per vinto, ma cerca soluzioni in tante dimensioni diverse, andando oltre i suoi limiti.

Non è accanimento terapeutico, perché non è in gioco né la guarigione né l’approccio farmacologico. C’è solo il desiderio di non lasciare sola una persona che sta attraversando l’ultimo miglio e di renderle la vita la più gradevole possibile. La morte verrà sicuramente, ma si può aspettarla insieme e nel frattempo continuare a godere della vita.

Al centro dell’elaborazione giuridica non ci sono i ritmi della vita quotidiana con le loro luci e le loro ombre, ma solo un principio assoluto, che fa leva sulla volontà del soggetto, isolandola però da tutto il contesto umano in cui abitualmente si sviluppa e si incarna.

Vs detto che nessuno di noi potrebbe mai fare a meno né della scienza medica né della scienza giuridica. La pietas, che è all’origine di ogni atteggiamento di cura, cerca il dialogo, è un rapporto sostanzialmente asimmetrico; una relazione di servizio tra persone uguali in dignità, ma con ruoli ed esperienze diverse.

Il principio di autodeterminazione lascia invece l’uomo solo davanti alle sue responsabilità e fissa in un gesto, in una decisione, un’intera storia, condivisa con altri, ma in quel momento affidata solo a chi pensa da sé a sé stesso.

Il dibattito sulla legge del fine vita non ignori la peculiarità assoluta che la relazione con il medico ha nella vita del paziente e la forza straordinaria con cui la medicina palliativa oggi sta accompagnando tantissime persone al loro incontro personale con la morte, ricordando e ringraziando per la bellezza della vita vissuta.

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