Gli incarichi in curia sono stati congelati da Leone XIV. Era prevedibile. Ma prima o poi cambieranno. E potrebbero raccontare molto del conclave
Nell’era dei social media satellitari non poteva non accadere che a poche ore dall’elezione di Papa Leone XIV venisse già riferito il risultato puntuale del terzo dei quattro scrutini del conclave: 49 voti per il cardinale Pietro Parolin e 38 per il cardinale Robert Francis Prevost. Che nel primo scrutinio pomeridiano ha poi raggiunto e verosimilmente superato il quorum richiesto di 89 voti su 133 elettori.
Tutte le indiscrezioni su un conclave – a caldo o dopo anni – vanno sistematicamente prese con le pinze. Però Alberto Melloni – da mezzo secolo osservatore e studioso di cose vaticane alla guida della prestigiosa Fondazione per le Scienze religiose “Giovanni XXIII” di Bologna – non ha mai pubblicato foto sfuocate. Per questo alla sua indicazione in tempo ultra-reale (ieri sul Corriere della Sera) sul presumibile passaggio chiave del conclave va riservata la massima attenzione, nell’avvio della ricostruzione di un momento di storia della Chiesa per molti versi compiuto in sé e distinto dall’esito e dalle conseguenze.
Il conclave appena terminato pare aver combinato dinamiche comuni ai due precedenti.
È indiscusso il dato della brevità: come nel 2005 e nel 2013, il nuovo Papa è stato eletto poco più di ventiquattr’ore dopo l’Extra omnes (ma era stato così anche nel 1939, nel primo conclave del 1978 e per alcuni versi anche nel 1963). Sacri collegi molto diversi – solo cinque cardinali elettori sono entrati mercoledì per la terza volta in Sistina e solo 22 per la seconda – sono rimasti egualmente fedeli all’imperativo di una comunione realmente testimoniata nella Chiesa e di un’unità ben visibile al mondo.
Il fattore motivazionale ha funzionato anche nel 2025, anche contro pronostici che si muovevano in direzione contraria. L’eccezionale numerosità del collegio elettore, la sua estrema diversificazione geografica e di background, lo scarso amalgama di conoscenza personale hanno fatto sì che l’aspettativa di un conclave prolungato fosse condivisa alla vigilia non solo dai vaticanisti ma anche da alcuni porporati. Previsione clamorosamente smentita, come peraltro è avvenuto spesso attorno al comignolo della Sistina.
Atteso – a quanto è dato congetturare – sembra esser stato invece il responso del primo scrutinio esplorativo, mercoledì sera. Il cardinale Parolin, segretario di Stato, è stato – salvo controprove poco prevedibili – il più votato. Ma è una dato insufficiente a leggere il primo step del conclave: manca la cifra, anche se stimabile in circa 50 voti. Ma allora un altro fatto sarebbe che lo score di Parolin nei due scrutini mattutini di giovedì sarebbe rimasto fermo, contraddicendo quindi una delle “regole dello Spirito Santo”: un papabile proiettato al Soglio vede costantemente crescere l’ispirazione di consenso da una votazione all’altra.
La conferma viene dal conclave del 2005, dove il cardinale Joseph Ratzinger – front runner curiale di continuità rispetto a Giovanni Paolo II – avvicinò inizialmente la maggioranza assoluta e si rafforzò al secondo e al terzo round, fino raggiungere i due terzi vincenti nel primo voto pomeridiano.
Se la crescita del consenso invece non avviene, il papabile cessa subito di essere tale. Nel 2013 il cardinale Angelo Scola – arcivescovo di Milano, candidato in continuità dinamica rispetto ai due pontefici precedenti – riportò in partenza meno voti del previsto e la sua candidatura non riacquistò forza la mattina dopo. Il conclave si orientò così rapidamente su un “piano B” già disegnato.
L’arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, secondo molte ricostruzioni, si era piazzato secondo alle spalle di Scola già nello scrutinio serale. E aveva così rammentato a tutti gli elettori di essere stato otto anni prima il destinatario dei voti segnaletici della “minoranza qualificata”, il cui leader indiscusso era l’arcivescovo emerito di Milano Carlo Maria Martini.
Verso chi si sono comunque indirizzati, mercoledì sera, gli 80-90 voti che non sono andati al segretario di Stato? E con quale distribuzione?
È lecito ipotizzare che il cardinale Prevost abbia ricevuto un pacchetto non trascurabile di consensi (una ventina?), forse imboccando da subito le orme di Papa Francesco nella Sistina. E forse a partire da una stessa “base elettorale”: i cardinali del Nord e del Sudamerica, anche se a flussi invertiti rispetto a dodici anni fa e non in perfetta sovrapposizione con quel “fronte bergogliano”.
Seguendo questo filo è immaginabile che lo score del futuro eletto sia cresciuto giovedì mattina, avvicinando Parolin. Quest’ultimo sarebbe stato quindi indotto a un passo di ritiro, tuttavia meno scontato e più decisivo di quello di Scola nel 2013. Si spiegherebbe anche così la massiccia ridislocazione di voti su Prevost dal terzo al quarto scrutinio, dopo la pausa per il pranzo. Senza dimenticare che Papa Leone non è giunto in Vaticano “dalla fine del mondo”, ma negli ultimi due anni ha operato come capo della Congregazione dei Vescovi, a pochi passi dal Palazzo Apostolico, sede della Segreteria di Stato.<
In questo quadro si può ipotizzare che fra i grandi elettori finali di Papa Leone vi sia stato lo stesso Parolin. Che avrebbe sofferto – fra l’altro – del mancato supporto di alcuni confratelli italiani, come Scola nel 2013, mentre nel 1978 la sorprendente ascesa di Karol Wojtyła era maturata nella clamorosa spaccatura del collegio sulle candidature italiane di Giuseppe Siri e Giovanni Benelli.
L’uso del conclave come prima chiave interpretativa del pontificato al debutto sembra dunque legato a una disponibilità quanto più dettagliata del primo tabellone: verosimilmente più aperto e articolato di quello precedente (nel 2013, oltre a Scola e Bergoglio, chance vere sarebbero state assegnate dal primo spoglio solo al curiale Marc Ouellet – predecessore di Prevost ai Vescovi – e all’arcivescovo di Boston Sean Patrick O’Malley, nordamericano come Papa Leone).
Quanti voti hanno ricevuto allo start l’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi e il patriarca di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa? Quanti il prefetto di Propaganda Fide, Luis Antonio Tagle, o l’arcivescovo di Marsiglia Jean-Marc Aveline? Oppure, con prospettiva rovesciata: per chi ha votato al primo turno il più giovane conclavista, il 45enne arcivescovo ucraino di Melbourne Mykola Bychock?
Perché (una fra le mille “peanuts” del pre-conclave) celebrando in web live il novendiale del 2 maggio il cardinale Claudio Gugerotti, prefetto alle Chiese Orientali, ha omaggiato il cardinale Prevost, seduto in San Pietro, di una citazione da Sant’Agostino? È lo stesso cardinale che ha celebrato in vece di Papa Francesco i riti del Venerdì Santo in san Pietro, presente il vicepresidente americano JD Vance.
Gugerotti – coetaneo del nuovo Pontefice anche nell’alto incarico a Roma e nel cardinalato – è stato fra l’altro nunzio a Kiev e a Londra. È un altro esponente di una nuova generazione di “governanti” della Chiesa, senza dubbio promossa da Papa Francesco, ma non nei modi e nei fini stereotipati dei media (significativo, in queste ore, lo spiazzamento della grande stampa Usa, obbligata a raccontare “the first American Pope” senza però poterlo celebrare come un continuatore certo di un Papa adottato regolarmente come icona liberal, ultimamente anti-trumpiana).
Resta comunque un fatto probabile che – a differenza di Bergoglio con Scola – Prevost non abbia rappresentato la sola opzione reale a Parolin offerta ai 133 elettori. È verosimile che sia stato il primo “piano B” da testare e che così sia avvenuto, con successo, al quarto scrutinio. Ma stavolta è forte la suggestione che Parolin e i suoi elettori abbiano autonomamente deciso di non continuare una contesa che invece avrebbe potuto proseguire fino a una “fumata bianca” diversa da quella che ha annunciato Papa Leone.
La svolta del conclave sarebbe dunque rovesciata rispetto a quella del 2005, quando una minoranza prese atto della “maggioranza Ratzinger”, limitandosi a una “conta” dimostrativa prima di dare al candidato curiale un via libera che non presentava vere alternative.
Prima che maturi il lento e spesso contraddittorio deposito di leak dalla Sistina, è verosimile che sia il ridisegno degli incarichi in Curia – tutti formalmente decaduti – a fornire ex post chiavi di lettura del conclave. Fondamentale sarà, su questo sfondo, la riconferma o meno di Parolin a segretario di Stato.
Il cardinale italiano – da sempre nel servizio diplomatico della Santa Sede– ha la stessa età del Papa eletto, ed ha ancora cinque anni utili, sulla carta, per raggiungere il limite anagrafico per il suo incarico. Servitore leale di Papa Francesco per dodici anni, è stato certamente condizionato nel suo incarico da alcune dinamiche strategiche, prima fra tutte la spinta anti-curiale e anti-europea implicita nell’elezione di Papa Francesco.
E alla base delle critiche verso la “Prima Loggia” vi era indubbiamente l’interpretazione del ruolo data dal predecessore di Parolin, sempre un italiano: il cardinale Tarcisio Bertone, braccio destro di Papa Benedetto.
Con Bertone – fra diritto canonico e prassi – la Segreteria di Stato si è mossa da vera “presidenza del Consiglio” della Curia, subordinando gli altri dicasteri, influenzando nomine a vasto raggio e ri-spingendosi fra l’altro ai limiti dell’interferenza nella politica italiana.
La postura è stata senza ombra di dubbio oggetto di correzione netta da parte di Parolin, in esecuzione di un mandato preciso di Papa Francesco. Ma casi come quello che ha coinvolto il cardinale Angelo Becciu, ex Sostituto, hanno continuato ad agire come freno oggettivo alla manovra della Segreteria (basti pensare all’incarico di inviato papale per l’Ucraina assegnato a Zuppi).
La ridefinizione complessiva del ruolo della Curia si profila dunque come uno dei dossier strategici sul tavolo del nuovo Papa, anche se non certamente l’unico, e forse neppure quello prioritario. Certamente con l’avvento di Papa Leone sembrano tramontate – almeno nell’immediato – le suggestioni di un vero e proprio smembramento della Curia romana. Che in uno dei suoi frequenti spunti critici, Papa Francesco aveva definito “una sfinge inutile da tentare di pulire con uno spazzolino da denti”.
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