Il carisma di don Giussani irrompe nella seconda metà del 900 proponendo la riscoperta del battesimo come sacramento dell’uomo nuovo in Cristo
Continua la pubblicazione di testimonianze su don Luigi Giussani, nel ventennale della sua salita al Cielo (2005) (ndr)
Il lungo conflitto in Occidente tra religione e modernità ha prodotto lungo i secoli un profondo “divorzio tra vangelo e cultura”, tra fede e vita, secondo quanto affermato san Paolo VI in Evangelii Nuntiandi, 20. In tal modo è andata gradualmente perduta anche la pertinenza umana delle parole cristiane e la pertinenza cristiana delle parole umane, come si evince dalla celeberrima domanda di T.S. Eliot nei Cori da La Rocca: “è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità o è l’umanità che ha abbandonato la Chiesa?”.
La separazione Chiesa-mondo inevitabilmente è ricaduta poi anche all’interno della Chiesa riguardo alla separazione tra le diverse forme della vita cristiana, in particolare l’eclissi della figura del battezzato, del cristiano laico. La vita religiosa, caratterizzata dalla pratica dei consigli evangelici, si presenta alla fine dell’epoca moderna distante dal “mondo mondano”, ma spesso separata anche dal cristiano che vive nelle comuni condizioni del vivere.
Il carisma di don Giussani irrompe all’inizio della seconda metà del XX secolo proponendo la riscoperta del battesimo come sacramento dell’uomo nuovo in Cristo, che fa di lui un nuovo soggetto nella storia, e del cristianesimo una “passione per l’umano”.
La proposta cristiana del sacerdote ambrosiano è semplice: riscoprire la fede cristiana, la sua capacità di riparare l’umano ferito e di portarlo a compimento. Particolarmente espressivo di questo percorso è il suo volume intitolato Si può vivere così? Uno strano approccio alla esistenza cristiana (Milano, 1994), che riporta le lezioni e i dialoghi di don Giussani con un gruppo di giovani impegnati nel cammino di dedizione totale a Cristo nella verginità, i Memores Domini.
Il cammino che viene proposto in realtà è significativo per tutti i cristiani e per tutti coloro a cui sta a cuore l’umano. Il testo, infatti, intreccia le parole cristiane e umane fondamentali che segnano il cammino di ogni uomo. La fede è presentata come un modo specifico di conoscenza che passa attraverso il testimone. La sua figura compiuta appare nel riconoscimento della presenza di Cristo in un incontro eccezionale, che corrisponde alle esigenze originarie che stanno nel cuore dell’uomo.
Questo riconoscimento implica radicalmente la libertà, la quale è descritta non solo come possibilità di scelta, ma come esigenza di compimento totale. L’obbedienza viene descritta come la virtù che maggiormente descrive l’umanità di Cristo e che diviene per noi la forma autentica della libertà. La sequela di Cristo permette questa esperienza di umana libertà in cammino verso il suo compimento.
L’essere in cammino verso una meta richiede la speranza. Giussani introduce questo tema in un modo semplice e geniale: l’incontro con Cristo, riconosciuto e accolto nella fede, rende certi del compimento. Per questo – egli dice – la speranza è una certezza che riguarda il futuro resa possibile da una certezza nel presente, rivelata dalla memoria: un fatto accaduto nel passato, che riaccade nel presente e sostiene il cammino fino al suo compimento ultimo.
A questa dinamica si oppone solo un rischio: quello di fissare la speranza in qualche cosa che determiniamo noi. È la mancanza di povertà, è il mettere la propria speranza nella carriera, nel soldi, nel potere o altro. È ciò che accade al giovane ricco, che interrompe la sequela di Cristo “perché aveva molti beni” (Mt 19, 16-22).
Per questo la povertà rende possibile la speranza, custodisce il desiderio di felicità da ciò che lo riduce e permette di sperimentare l’inizio del compimento: è il “centuplo quaggiù” (Mt 19,29) di cui parla Gesù ai suoi discepoli che hanno lasciato tutto per seguirlo. Da ciò scaturisce la fiducia, l’affidamento di sé a Cristo presente nella circostanza, e nel cuore fiorisce la letizia, anche nella tribolazione, perché certi del compimento.
Ma questa presenza riconosciuta dalla fede e sulla quale rischiare tutto il proprio futuro, ha una mossa misteriosa e ultima; si rivela come “Carità”, amore gratuito e incondizionato: “egli mi ha amato e ha dato se stesso per me”, dice san Paolo ai Galati (2,20). Questa coscienza di essere amati e voluti, dirà tante volte Giussani, è la consistenza dell’uomo nuovo, è il sentimento supremo della vita.
Questo dono di sé “commosso” Cristo lo ha realizzato in tutta la sua vita fino al mistero della croce attraverso il “sacrificio” di sé. Da qui Giussani propone il riscatto di questo termine censurato dalla cultura contemporanea. Il sacrificio non come scopo ma come condizione dell’amore, del dono di sé all’altro, perché l’altro sia, sia per sempre.
Se da una parte ogni persona sente una repulsione davanti al sacrificio – poiché è fatta per la gioia – dall’altra parte il sacrificio che Cristo ha compiuto rivela il senso di ogni sacrificio, dell’uomo per la sua donna e viceversa, dei genitori verso i figli, della persona verso il suo amico, verso l’altro, chiunque sia.
Questa visione della carità come dono di sé all’altro permette a Giussani di parlare della verginità cristiana come culmine dell’atteggiamento amoroso, paragonabile solo al martirio, in cui l’altro è amato non per il tornaconto che può dare, ma perché è “altro” ed è fatto da un Altro e per un Altro, è fatto per l’Eterno. In questo senso la verginità è il modo con cui Cristo ama ogni uomo e ogni donna. Chi non vorrebbe essere amato in questo modo, con questa gratuità senza fondo? In tal senso la verginità cristiana diviene non solo una specifica forma di vita cristiana, ma ideale di ogni forma di amore umanamente desiderabile.
In questo cammino, dunque, emerge come il servo di Dio mons. Giussani abbia proposto un itinerario significativo per tutti, in cui Cristo appare come la verità ultima dell’umano.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
