Hanno fatto festa in Siria, ma anche in Libano, perché il terribile regime di Assad, che ha continuato l’opera del padre, non ha lasciato segni solo in patria. Ecco perché, spiega Bernard Khoury, direttore italo-libanese del Centro studi sul mondo arabo Cosmo, il Medio Oriente ha celebrato la caduta del dittatore, nonostante il contributo decisivo dato dalle forze jihadiste di Hayat Tahrir al Sham (HTS) e i timori sul loro operato futuro. Certo, la sfida di costruire un governo di unità nazionale non è per niente facile, ma il sollievo per la fine di un’epoca di violenza è comprensibile, al di là delle incognite su quello che sarà. La caduta di Assad, intanto, delinea un nuovo Medio Oriente, che, come effetto domino, potrà avere la nomina di un presidente e di un governo in Libano e anche un cambio di regime in Iran.
In Occidente e in Medio Oriente la caduta di Assad ha suscitato reazioni molto diverse. Questa considerazione cosa ci fa capire della situazione che si sta creando?
Sta passando un messaggio molto malizioso ma potente, simile a quello che lo stesso Bashar al Assad ha fatto filtrare sistematicamente dal 2011 a oggi: “Non toccate il mio regime perché garantisce che i terroristi non avranno il sopravvento”. Un messaggio che viaggia sui social, dove i russi, alleati dell’ex regime siriano, sono maestri nell’utilizzare i troll. Oggi l’Occidente lo sta ripetendo, dicendo che si sta passando dalla padella di Assad alla brace dei jihadisti. È una visione superficiale che non rispetta la realtà sul terreno.
L’Oriente, invece, come interpreta il cambio di regime in Siria?
Nelle ultime ore, nonostante nell’opposizione siriana ci siano formazioni salafite jihadiste, prima fra tutte HTS, ex ala di Al Qaeda, ci sono stati in tutta la Siria, ma anche in Libano, manifestazioni di festa e celebrazioni che un occidentale non potrebbe capire. In Libano sono stati sparati fuochi di artificio, con distribuzione di champagne e baklava, i dolci tipici del Medio Oriente. Nell’89-90, mentre stava per terminare la guerra civile in Libano, i siriani salirono al palazzo presidenziale di Beirut, insediarono un presidente e diedero inizio a un’occupazione militare che è durata fino al 2005: in quella occasione distribuirono champagne e baklava.
Perché la caduta di Assad ci porta a parlare di Libano?
Perché il Libano è stata la palestra del terrore del regime, dove la famiglia Assad ha messo in atto tutte le tecniche che l’hanno contraddistinta negli ultimi 53 anni. Hanno rapito e fatto sparire migliaia di cittadini libanesi, la maggior parte dei quali innocenti: in ogni famiglia libanese, e includo anche la mia, c’è un parente finito nelle carceri siriane, non si sa se vivo o morto. I libanesi festeggiano perché sperano anche di rivedere i loro cari.
In Siria, quindi, avranno fatto anche peggio.
E infatti anche in Siria in questi giorni si brinda. Ho diversi amici ad Hama e Homs che hanno alzato i calici perché l’oppressione che hanno sperimentato dal 1976 al 2005 ha portato anche a una serie di omicidi eccellenti. Chi ha conosciuto questo regime e il senso di terrore con il quale governava, non penserà che ora possa arrivare una forma di potere peggiore di questo. In termini di crudeltà parliamo di una realtà simile a quella dei vecchi regimi del Novecento; chi dice che si passa dalla padella alla brace deve ricordarsi dei regimi nazifascisti da una parte e di quelli comunisti dall’altra.
Le forze che hanno preso Damasco hanno la forza per controllare il Paese e riorganizzarlo?
Il rischio di una frammentazione, di una situazione sul modello afghano, è lì dietro l’angolo. A oggi in Siria non esiste un movimento come quello talebano, in grado di mettere da parte tutte le altre forze laiche e di dire: “Oggi comandiamo noi”. L’Iran è entrato in Iraq ribaltando la situazione geopolitica e comandando, ma in Siria è uno dei maggiori sconfitti.
Ma come può essere amministrato il Paese?
Il fatto che siano andati a “prelevare” il primo ministro designato lo scorso settembre per discutere come rendere pacifica questa transizione, e il fatto che buona parte degli ex del regime si siano limitati a prendere atto che la situazione è cambiata, mettendosi a disposizione, fa vedere che c’è la volontà di mantenere una continuità amministrativa e di arrivare alla formazione di una sorta di governo di unità nazionale. Anche se non è detto che si riesca. Una situazione fluida, ma l’alternativa non poteva essere certo il regime di Assad.
HTS è sostenuto principalmente dai turchi: Ankara ha un piano per gestire la Siria?
Assolutamente sì. La Turchia dal 2011 a oggi è stato il principale attore che ha cercato di portare al collasso il regime di Assad. Lo ha fatto per interessi geopolitici e per estendere la sua influenza. Erdogan vuole essere il nuovo sultano ottomano, la visione strategica è quella imperiale. Ora vorrà monetizzare gli investimenti fatti negli ultimi anni, anche economici, come il supporto dato a questi gruppi anche in funzione anticurda. Oltre alla Turchia ha un ruolo anche il Qatar, che ha finanziato gruppi sempre di ispirazione sunnita. Qui c’è una continuità con ciò che è iniziato a Gaza nell’ottobre 2023.
Cioè?
Gli israeliani hanno preso di mira Hamas, ma estendendo il conflitto anche a Hezbollah e alla Siria, dove hanno colpito obiettivi filoiraniani. Il disegno del nuovo Medio Oriente è chiaro: c’è un Iran isolato, perché la caduta del regime siriano segna veramente la fine di un’epoca, quella del cosiddetto triangolo filoiraniano. L’8 dicembre rappresenta il requiem dell’Asse della Resistenza che dall’Iran passava in Libano e Siria, di cui Nasrallah (ex capo di Hezbollah, poi ucciso, ndr) ha parlato fino a non molto tempo fa.
Gli altri Paesi sunniti dell’area come vedono la nuova situazione in Siria? Il nuovo gruppo al potere si limiterà a gestire la Siria o vuole influire anche sulle nazioni limitrofe?
I Paesi sunniti più influenti nella regione sono allineati con la politica americana in Medio Oriente. Il 7 ottobre arriva dopo gli accordi tra Israele e diversi Paesi dell’area, i cosiddetti Accordi di Abramo. La comunità sunnita è la prima in termini numerici in Siria; è ovvio che Paesi come la Giordania e l’Arabia Saudita siano interessati a rafforzare la loro presenza nella regione. I governi arabo-sunniti, di concerto con gli USA e con Israele, hanno interesse che quell’area sia stabile. Con una visione ottimista vedo un Medio Oriente nuovo, nel senso che questi Paesi cominceranno processi che potrebbero creare condizioni di vita che le popolazioni finora non hanno mai conosciuto. In pochi credono nella guerra come strumento di cambiamento politico: è stato fallimentare per Hamas, Hezbollah e Siria. Certo, le incognite sono ancora tante, ma quanto meno non ci sono più le influenze iraniane.
È possibile un effetto domino che dalla Siria arrivi fino all’Iran?
Sì. La pedina finale di tutto questo processo è l’Iran. Il vero cambiamento si può avere se cambia l’attuale regime iraniano. E credo che il popolo iraniano stia aspettando questo momento.
L’effetto domino potrebbe riguardare anche il Libano, visto l’indebolimento di Hezbollah?
Hezbollah è finito dal punto di vista militare e politico: non avrà più aiuti, non avrà un appoggio politico nel regime siriano né le spalle coperte, anche in termini di sistemi di intelligence, da parte della Siria, e non arriveranno più rifornimenti da Teheran. L’Iran non ci pensa proprio a mandare aiuti. Sta cercando di prendere le distanze perché ha capito come si sta evolvendo la situazione. Anche il Libano potrebbe finalmente avere un nuovo presidente e un nuovo governo. Tutto si concretizzerà a gennaio con l’insediamento di Trump.
(Paolo Rossetti)
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