Il live action di "Dragon Trainer", noto film di animazione, ha avuto un successo importante, forse per più di una ragione
Da quando Disney ha inaugurato il trend degli adattamenti “non disegnati” dei suoi classici animati (buon ultimo il grande successo Lilo & Stitch), ci si è interrogati sul senso di operazioni del genere anche per film che sono molti amati e conosciutissimi, magari recenti. Si tratta di motivi che con l’arte non c’entrano nulla, ma che concernono la tenuta di certi marchi, il rinnovo dei diritti sulle proprietà intellettuali, lo sfruttamento di opere di quasi sicuro successo.
Il successo che ha arriso anche Dragon Trainer, operazione Dreamworks che parte dalla serie di film partita nel 2010 e nata da un libro di Cressida Cowell, ci dice che questi film hanno senso come prodotti, ma come opere?
La domanda diventa ancora più interessante se ci troviamo di fronte a un film che non si può non definire riuscito: la storia è la stessa, snodo per snodo, scena per scena, dell’originale e vede il giovane vichingo Hiccup (Mason Thames) insoddisfatto perché, a differenza del padre (Gerard Butler) e dei suoi concittadini, non è fatto per dare la caccia ai draghi, che paiono la sola grande preoccupazione della comunità. Quando però cattura un raro esemplare di Furia Buia, impara che i draghi si possono ammansire e che non serve far loro la guerra, anzi.
Al timone Dean DeBlois, già dietro il successo del film animato (e anche dell’originale Lilo & Stitch), che scrive, dirige e produce un remake quasi copia carbone – ma curiosamente più lungo di 20 minuti – in cui tramutare in fotorealismo la magia dell’animazione e soprattutto commentare in un certo senso la situazione in cui verte il mondo, che mai come oggi ha avuto bisogno di discorsi di pace:
al netto di possibili letture interessate e un po’ ridicole (i vichinghi come Israele, i draghi come la Palestina, la Morte Rossa come Hamas), Dragon Trainer racconta la responsabilità di finire le guerre contro la codardia del cominciarle, i gesti di pace come atto di coraggio e di empatia, smontando la retorica della “bella morte” eroica con una singola frase: “Quando l’ho guardato, ho visto me stesso”.
>Pregi di una storia universale e che resta quindi “classica”, perfetta per ogni tipo di adattamento: il ritmo è agile e fluido, lo spettacolo è elettrizzante specie per chi non ha visto l’originale, il carisma di Butler supplisce ai volti da teen drama dei giovani protagonisti, eppure resta il nodo centrale, ovvero che l’animazione, dal punto di vista prettamente cinematografico, offre una capacità visiva senza paragoni, un ventaglio di possibilità estetiche e stilistiche che, messo a confronto con quelle del cinema live action, è impietoso a parità di racconto.
Per cui, data la risposta al dilemma, smettiamo di porci la domanda e godiamoci un film che meglio di così, stando detti limiti, non potrebbe venire.
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