Caro direttore,
è morta il 27 agosto, dopo 238 giorni di digiuno, Ebru Timtik, avvocata turca che era stata arrestata insieme a altri 18 colleghi per il suo impegno nella difesa dei diritti civili in Turchia.
Il 14 agosto, la Corte costituzionale del paese aveva respinto la richiesta di rilascio a scopo precauzionale sia per lei sia per il collega Aytaç Ünsal, entrambi in sciopero della fame, nonostante le loro condizioni di salute fossero già molto critiche e dichiarati non idonei alla reclusione dall’Istituto di medicina legale.
Si legge che neanche una denuncia fatta alla Corte costituzionale turca di Ankara abbia avuto successo. I due avvocati, trasferiti sotto osservazione e contro la loro volontà in diversi ospedali di Istanbul, avevano deciso di trasformare lo sciopero in un “digiuno mortale” il 5 aprile, “Giornata degli avvocati”.
Nel complesso dei procedimenti contro presunti membri del Dhkp-C (Fronte rivoluzionario di liberazione popolare), gli avvocati sono stati condannati a lunghe pene detentive in base alle leggi sul terrorismo, a causa delle dichiarazioni contraddittorie di un testimone chiave. Con la loro protesta, i due avvocati invocavano un processo equo. Timtik è la quarta vittima del processo Dhkp-C.
Non so, francamente, se morire così possa avere un senso. In un mondo ideale, non lo avrebbe.
Non tanto per il gesto, che a mio modestissimo parere, è stato unico e coraggioso. Ma per la risposta data dalla comunità internazionale e per il silenzio che ha accompagnato la scomparsa di questa giovane vita.
Anteporre i propri bisogni, addirittura la propria vita, ad una causa universale come quello del riconoscimento del diritto dell’uomo e della sua dignità, merita una forte riflessione. Perché davanti alla vita l’uomo non perde il coraggio, ma è la scelta della morte per il bene comune che mette chiunque in difficoltà. Un gesto d’amore che va oltre ogni logica e davanti quale non si può tacere.
Nel 2020 non vorremmo più assistere o leggere notizie del genere e invece la realtà ci provoca ogni giorno per riportarci alla nostra dimensione. Una dimensione fatta di protagonismi, prevaricazioni, crudeltà che continuano ad alimentare le prede espansionistiche di coloro che sotto il manto del proprio credo continuano ad accendere guerre e scontri.
Oggi, chi ancora è in prigione, vive una protesta silenziosa che sta portando avanti con dignità e coraggio. Uomini e donne armati solo di umanità e giustizia che si stanno scontrando contro il muro della violenza e prepotenza.
Ma che senso ha la vita umana se ad una giovane donna viene permesso di togliersi la vita in questa maniera? Sino a morire di stenti? Perché si deve arrivare a tanto per restituire alle persone i loro naturali diritti?
Significa dunque che la vita di qualcuno vale meno della vita di un altro? Che lo Stato ha la possibilità di decidere della vita degli uomini?
È già successo in passato e, nonostante i negazionisti che continuano a vagheggiare nella loro follia, si è riusciti a ripristinare un ordine, uno Stato e a volte persino una democrazia. Perché la dignità dell’uomo, e la vita di ognuno di noi, vale quanto quella di chiunque altro e senza alcuna distinzione.
La dignità dell’uomo e il rispetto della vita sono condizioni necessarie per lo sviluppo della civiltà. Chi si macchia di tali crimini, direttamente o indirettamente, commette gli stessi errori del passato. Chi si macchia di tali crimini nega l’uomo e non merita di essere chiamato tale.