Per preservare le poche poltrone che ancora gli restano, il Pdl ha fatto in modo di impedire la trasformazione del decreto sul taglio delle Province in legge. Il commento di UGO ARRIGO
Sarà per un’altra volta. Salta il taglio delle province. E non di certo per una serie sfortunata di circostanze imprevedibili. Basta dare un’occhiata alla dinamica degli eventi per scoprire le vere ragioni dell’affossamento: sul decreto di riordino delle amministrazioni provinciali sono stati presentati circa 600 emendamenti. 460 sono del Pdl (e 300 del senatore pidiellino Claudio Fazzone). Troppi. La commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama ha stabilito che manca il tempo per esaminarli tutti e tradurre il dl in legge. Il tempo ci sarebbe stato se non fosse stata aperta la crisi di governo. La crisi aperta dal Pdl. Ora, tutto questo cosa comporterà? Ce lo spiega Ugo Arrigo, professore di Finanza Pubblica presso la Facoltà di Economia dell’Università di Milano Bicocca.
Come giudica l’affossamento del dl?
Non che il taglio, per come è stato ideato, fosse particolarmente apprezzabile, ma, quantomeno, rappresentava un tentativo per incominciare a incidere sui diversi livelli di governo. Da tempo, del resto, si afferma che avendo creato le autonomie regionali, il livello provinciale non aveva più senso.
Che cosa si sarebbe dovuto fare?
L’ideale sarebbe stato abolirle, unificando le amministrazioni esistenti ed eliminando, in particolare, il livello di rappresentanza politica. La soluzione di accorpamento ipotizzata non mi entusiasma. Abbiamo enti che sono eletti e dispongono di comitati, giunte, consigli, ma gran parte della loro attività consiste in pura amministrazione: manutenzione delle viabilità, delle strade o degli edifici scolastici.
Quindi?
Si tratta di operazioni che può tranquillamente svolgere un qualsiasi ente pubblico non politico.
Lei cosa propone?
Io sarei per l’aziendalizzazione della manutenzione delle strade e degli edifici scolastici. Detto questo, le province, formalmente, potrebbero anche restare in piedi. Magari, con un vertice eletto sul territorio, di piccola entità e poco costoso. Un comitato di al massimo dieci persone. In modo che le decisioni che riguardano direttamene il territorio siano assunte dai suoi abitanti. Le province potrebbero altresì rappresentare il luogo istituzionale ove gli attori locali si incontrano per promuovere lo sviluppo del territorio. Resta il fatto che l’apparato burocratico provinciale dovrebbe essere aggregato alla Regione d’appartenenza (che si occuperebbe delle eventuali riduzioni di personale), falcidiando, così, tutte le occasioni di clientelismo e sprechi.
Perché, secondo lei, la proposta è saltata?
In generale, chi occupa delle poltrone, difficilmente vuole mollarle. Si eliminerebbe, inoltre, la possibilità di sistemare gran parte politici locali. Più in particolare, in questa fase, il Pdl ha probabilmente la necessità di salvare il salvabile.
Cosa intende?
Verosimilmente, perderà le prossime elezioni in Lazio e in Lombardia e, di Regioni, gliene resterebbero decisamente poche; contestualmente, si accinge a perdere anche le politiche. A quel punto, se si eliminassero anche le provincie, perderebbe l’ennesimo livello di governo. Non escludo, inoltre, che il fallimento della riforma rappresenti un’altra manovra politica ben precisa.
Quale?
L’affossamento del dl potrebbe essere il prezzo da pagare alla Lega perché si allei con il Pdl alle politiche. Il Carroccio, infatti, è da sempre il più strenuo difensore delle Province. Il problema è che più che per la mancata riforma in sé, c’è da rammaricarsi per la pessima figura che faremo sul fronte internazionale.
Crede?
Questa operazione darà all’Europa e ai mercati l’impressione che l’Italia non ha alcuna volontà di cambiare e di riformare. Si penserà che se non riusciamo a produrre una riforma tutto sommato così modesta (riordinare le Regioni e i Comuni è analogamente necessario, ma molto più complicato), è impensabile che potremmo portare a compimento quello più imponenti.
(Paolo Nessi)