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Home » Educazione » SCUOLA/ Classi ponte o classi ghetto: i dati Invalsi danno ragione alla Lega?

  • Educazione

SCUOLA/ Classi ponte o classi ghetto: i dati Invalsi danno ragione alla Lega?

Luisa Ribolzi
Pubblicato 3 Febbraio 2010
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A fronte del dibattito scatenatosi sui recenti risultati dei test Invalsi LUISA RIBOLZI critica qualche intervento demagogico ponendo l’accento su una questione di realismo educativo: l’inserimento graduale degli studenti stranieri è una necessità concreta

I risultati dei test Invalsi resi pubblici in questi giorni stanno suscitando un vivace dibattito che può essere riassunto, molto rozzamente, nella considerazione che la scuola di stato non dà a tutti le stesse possibilità di apprendimento, perché (anche nella scuola primaria) non solo esiste una forte differenza fra Nord e Sud, ma nel Sud stesso le scuole sono fortemente differenziate, e il divario cresce con l’avanzare degli anni. Il vantaggio del Nord, però, potrebbe essere solo temporaneo perché la concentrazione dei bambini di origine straniera nelle grandi città del Nord porterà a un netto calo dei valori medi, dal momento che i punteggi ottenuti nei test, soprattutto quelli linguistici, sono inferiori di otto – dieci punti a quelli dei bambini italiani. Sono dati incontrovertibili, che non è possibile ignorare, e che mi portano a intervenire, più che sulla qualità degli apprendimenti, sul tema del “tetto” ai bambini stranieri e sull’opportunità di istituire “classi per stranieri”. La capacità di dare una lettura demagogica di qualsiasi proposta mi pare uno dei peggiori difetti della classe politica italiana, che la stampa ha entusiasticamente copiato, o forse promosso: potrà forse servire sintetizzare  alcuni punti su questo argomento.


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1. La soglia del 30% di ragazzi stranieri non è casuale: mediamente, nella scuola primaria, e indipendentemente dai valori assoluti, i bambini di origine straniera nati in Italia sono circa sette su dieci. Ne consegue che una classe senza un solo italiano ha molte probabilità di rispettare il tetto fissato. E in caso contrario pare difficile immaginare di “deportare”  qualche bambino, in base a criteri di scelta sempre opinabili, in un quartiere diverso da quello in cui vive, o reciprocamente di “importarlo”.


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2. Resta però innegabile che nella nostra ipotetica classe di tutti stranieri il livello di conoscenza dell’italiano, che è preliminare anche rispetto agli altri apprendimenti, con ogni probabilità sarà differenziato in base al periodo di arrivo, alla scolarità precedente, alla lingua parlata in casa e al livello di cultura dei genitori: e questo naturalmente vale per i ragazzi di origine straniera presenti nelle scuole, indipendentemente dall’eventuale concentrazione, legata alla struttura abitativa del territorio.

3. Ne consegue, o meglio ne conseguirebbe, che qualsiasi politica educativa finalizzata vuoi all’inserimento, vuoi all’equità deve tenere conto della diversità dei punti di partenza, e ridurla con azioni positive. In altre parole, non è spostando e smistando i ragazzi stranieri, o in difficoltà (non sempre i due termini coincidono) che si risolve il problema, ma pensando a forme di personalizzazione dell’insegnamento. È un problema che va affrontato dalle scuole e non dalle classi.


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4. E qui torna a galla la proposta delle classi – ponte, che per essere stata (intenzionalmente?) proposta dalla Lega come una sorta di “classi speciali” è stata ipso facto bollata di classi – ghetto. Ora, non solo nella quasi totalità degli altri paesi europei l’inserimento dei ragazzi stranieri avviene in modo graduale, con un insegnamento intensivo della lingua del paese di arrivo e, almeno per le materie fondamentali, ore di insegnamento nella lingua di origine o in una lingua veicolare, per evitare che si crei un divario negli apprendimenti disciplinari troppo difficile da colmare, ma nella stessa scuola italiana la normativa dell’autonomia prevede la possibilità di dividere e ricomporre le classi per lo svolgimento di attività specifiche, tra cui il  recupero di materie curricolari.


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Qui sta il punto: per questo tipo di organizzazione del servizio educativo servirebbero capacità di programmazione, flessibilità nell’utilizzo degli insegnanti e risorse aggiuntive, che sono presenti (o mancano…) in misura particolarmente differenziata, chiudendo il circolo della disequità nell’offerta di formazione da cui siamo partiti. Non sarebbe il caso di discutere su questo, anziché sulle colpe dei Borboni o della televisione, o sul fatto che le “quote” e le “classi – ponte” siano di destra o di sinistra?


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