In questi giorni di confusione politica riusciamo, nonostante tutto, a leggere “originali” proposte relative alla caccia alle risorse finanziarie apertasi da qualche settimana onde scongiurare l’aumento dell’Iva (ahimè, che oggi è entrato in vigore), il pagamento della seconda rata dell’Imu o piuttosto per tenere il rapporto deficit/Pil dentro il 3%.
Ma forse del tutto originali non lo sono e alcune di queste nascondono ben altro. Come quella di richiedere l’Ici non pagata sugli immobili della Chiesa e delle Onlus fino al 2011 a cui il governo Monti “decise di rinunciare” a dir poco – sembrerebbe – illegalmente.
Ma andiamo con ordine.
L’esenzione dall’Ici era applicabile fino al 2012 a tutti gli enti che svolgevano “attività assistenziali, previdenziali, educative, ricettive, culturali e ricreative” a prescindere (o quasi) dalla modalità con la quale veniva svolta. Questa disciplina “di favore” aveva aperto un’infrazione presso Bruxelles spingendo così l’Italia a rivederla.
Questo problema si è sviluppato quindi per diversi anni tra mille incertezze legislative ed interpretative senza mai essere definito in modo chiaro: vittima anche di molti pregiudizi ideologici e politici che non tenevano conto della realtà dei fatti. Che, cioè, queste migliaia di enti non profit svolgevano un servizio pubblico tale e quale a quello svolto dallo Stato.
Così il governo Monti nel 2012, modificando e forse stravolgendo l’originaria idea di Imu e sotto le pressioni della Commissione europea, decise di estendere il pagamento dell’Imu a tutte quelle realtà anche non lucrative che avessero svolto quelle attività in modo “commerciale”. Attività commerciali che comprendono (questo l’assurdo!) per le nostre norme tributarie anche la gestione di una scuola paritaria inserita nel sistema nazionale da parte, ad esempio, di una cooperativa sociale.
Una scuola paritaria deve perciò pagare l’Imu mentre una statale no! Ribadiamo, se ce ne fosse ancora bisogno, che in uno Stato moderno i servizi alla persona sono svolti sia dallo Stato che dalla società che, autonomamente e dentro il rispetto di standard condivisi, offre un mix di soluzioni spesso più efficienti ed efficaci di quelle statali. Più di recente nel Decreto del Fare era stata inserita la proposta di abolizione dell’Imu per le scuole paritarie ma poi espunta: l’augurio è quello che in vista di una revisione generale della Service tax si possa una volta per tutte fare chiarezza e definire per legge che i servizi quali quelli educativi o di assistenza non sono mai attività commerciali, bensì servizi di pubblica utilità.
Viene da pensare infatti che la continua diatriba sulla natura commerciale dell’attività svolta o della porzione di immobile adibita ad attività commerciale, voglia nascondere il vero problema di fondo: riconoscere realmente il contributo pubblico che migliaia di realtà legate a parrocchie, ordini religiosi, enti non profit stanno continuando a dare. Contributo ma anche risparmio per le casse statali ben maggiore di quanto si sarebbe dovuto recuperare dall’Ici non versato dalla Chiesa negli anni passati: ma questo non viene mai detto! Come se la Chiesa avesse goduto di un privilegio d’altri tempi.
Eppure, per fare un paragone un po’ paradossale, negli Stati Uniti proprio in questi momenti stiamo assistendo alla chiusura (temporanea) di uffici federali per mancanza di una legge di bilancio e della sicurezza di una copertura finanziaria: il cosiddetto shutdown. In Italia per coprire inefficienze, sprechi o buchi di bilancio si procede lentamente con la spending review e molto velocemente con l’aumentare imposte e tasse, attribuendone poi magari la colpa alla Chiesa o alle realtà del mondo non profit ad essa legate. Le si chiede, in modo irragionevole, di pagare le inefficienze dello Stato. Ma la burocrazia ed i ritardi della pubblica amministrazione nei pagamenti ad esempio colpiscono proprio queste realtà, spesso considerate solo “fornitori” di servizi a basso costo.
C’è davvero ancora molta strada da fare verso una reale sussidiarietà anche in campo fiscale. Ma soprattutto è giunto il momento di una riflessione “laica” e responsabile sul valore e sul contributo socio-economico dato da queste realtà al bene comune che quotidianamente garantiscono alla collettività servizi che se svolti direttamente appesantirebbero in modo notevole le già dissestate casse statali: affermazione che non può essere rinvenibile solo nelle parole, ma deve esserlo soprattutto nella sostanza degli articoli di legge e dei regolamenti che ne conseguono.