Diversamente da quel che aveva ripetuto durante tutta la campagna elettorale per le europee, il presidente Macron, domenica sera alle 19, ha annunciato l’imminente scioglimento dell’Assemblea nazionale, motivandolo con il pessimo risultato del suo movimento politico e l’affermazione netta di partiti orientati in modo radicalmente incompatibile con la sua visione dell’Europa e delle relative politiche.
L’art. 12 della Costituzione del 1958 è piuttosto laconico: il decreto di scioglimento è prerogativa del Presidente e non necessita di controfirma. In altri termini, è un atto ampiamente discrezionale.
Se ne è fatta qualche tipizzazione in base alla storia della Quinta Repubblica e la stampa francese, sottolineando il carattere azzardato della decisone di Macron, la giudica legittima, leggendola in chiave di chiarimento, in tempi brucianti (tra fine giugno e prima metà di luglio), dell’orientamento politico degli elettori.
Saremmo dunque in presenza di quel che lo stesso de Gaulle, quando vi fece ricorso nel 1968, chiamò scioglimento referendario e che altri hanno definito plebiscitario.
È bene però avvertire i lettori che l’impressione di una decisione repentina è infondata: secondo quanto si apprende dall’edizione di ieri di Le Monde, essa fa parte di una strategia in preparazione da almeno sei mesi e concepita dall’inquilino dell’Eliseo con alcuni suoi stretti consiglieri ed amici. Un disegno che gli autori stessi avrebbero paragonato all’Operazione Fortitude risalente ai giorni dello sbarco in Normandia, con l’obiettivo, duplice, di anticipare di ben tre anni il confronto con l’estrema destra per la presidenza della Repubblica, esponendosi al rischio di una sua nuova (e magari ancor più robusta) affermazione, ritenuta da Macron – secondo quanto si legge nel testo del messaggio di domenica – causa sicura di impoverimento dei francesi e di “declassamento” della Francia (tacendo però che l’uno e l’altro sono già realtà).
Del resto lo scioglimento è stato invocato dallo stesso Bardella, e dunque corrisponderebbe ad una dinamica normale – per quanto frenetica – del sistema politico ed istituzionale transalpino.
Si possono tuttavia scorgere diversi profili di singolarità di tale scioglimento. Vediamone alcuni.
In primo luogo, per la prima volta in Francia il risultato delle elezioni dei rappresentanti di quella “ibrida” istituzione che è il Parlamento europeo si ripercuote, non solo politicamente, ma dal punto di vista giuridico-costituzionale sulla rappresentanza politica nazionale. In pari tempo, quindi, l’esito delle urne diventa oggetto di una sorta di appello allo stesso corpo elettorale, evidentemente affinché riconsideri le sue legittime scelte.
In secondo luogo, sembra paradossale che il Presidente francese qualifichi espressamente la scelta come “prima di tutto, un atto di fiducia” nella capacità del popolo francese di fare “la scelta più giusta per se stesso e per le generazioni future”.
Ora, se l’esito delle elezioni deve leggersi in termini di ricadute istituzionali, l’unico dato inequivocabile – come del resto hanno ampiamente chiosato i media francesi – è la sfiducia che il corpo elettorale ha manifestato nei confronti dell’inquilino dell’Eliseo, al quale imputerebbe non soltanto le scelte in ambito europeo (all’interno e soprattutto fuori dalle frontiere dell’Unione), ma anche la mancata percezione degli effettivi interessi della collettività nazionale.
Dal che una sola conclusione ragionevolmente possibile: che alla presa d’atto della sconfitta, Macron facesse seguire le sue dimissioni, così come risulta avergli “suggerito” il ministro dell’Interno Darmanin.
E invece il Presidente ha, per così dire, convogliato la manifestazione di sfiducia verso l’Assemblea nazionale, senza fare alcun riferimento a sue eventuali dimissioni qualora le prossime consultazioni politiche confermassero i risultati di quelle europee.
Una scelta del genere si sarebbe potuta ben comprendere se la recentissima tornata elettorale avesse dato risultati opposti.
E d’altra parte che Macron stia effettivamente perseguendo l’obiettivo di far mutare opinione agli elettori in così breve termine, non sembrerebbe plausibile neppure stando a quel che si legge sui quotidiani francesi: ossia che l’intento sarebbe (almeno, anche) quello di indebolire i suoi più diretti competitors, dal momento che l’attuale Presidente, dopo due mandati, non può più essere riletto.
Ma c’è un altro scenario ipotizzabile.
Se si considera che il Presidente del Consiglio viene nominato dal Presidente della Repubblica, con ogni conseguenza in termini di rapporto tra i due organi pur quando di diversa o opposta estrazione politica, si può pensare che Macron, magari anche sulla base dell’osservazione che i cittadini francesi non necessariamente indirizzano le loro scelte nello stesso modo alle legislative e alle presidenziali, soprattutto quando il loro partito di riferimento esprima un candidato all’Eliseo posizionato alle estreme dell’arco politico, punti, almeno come second best, a logorare i leader dell’opposizione, imponendo una coabitazione che, pur vedendolo indebolito nel suo ruolo e quindi nella concreta consistenza delle sue attribuzioni costituzionali, non permetterebbe comunque alla nuova maggioranza di governo effettiva pienezza di funzioni: una condizione che, nell’attuale complessissimo scenario interno, europeo ed internazionale, potrebbe essere una prova estenuante per il Rassemblement National e per i suoi alleati.
Una cohabitation sino al 2027 potrebbe quindi risolversi in una grave perdita di chances alle presidenziali per le forze di opposizione, pur divenute maggioranza, e per di più, in un certo senso, volontariamente espostesi al rischio, avendo invocato esse stesse la dissolution dell’Assemblea.
In questo modo, peraltro, Macron troverebbe una via di fuga per giustificare l’inadempimento di impegni presi a livello internazionale.
Se così fosse, si potrebbe avanzare qualche dubbio sulla correttezza – se non sulla legittimità – del ricorso allo scioglimento.
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