Nel Veronese tre fratelli fanno esplodere la casa per opporsi a uno sfratto, tre carabinieri muoiono per una reazione folle
“Quello che mi ha colpito di più è stato vedere tre carabinieri in divisa sotto un lenzuolo”. Quando si parla dell’Arma, come degli Alpini o di altri corpi di polizia o militari, si parla di una “famiglia”. Con tutti gli errori, i limiti, i compromessi, ma anche con i legami affettivi che tengono o dovrebbero tenere unita qualsiasi famiglia. Perciò le parole pronunciate a caldo ieri mattina davanti ai giornalisti da Raffaele Tito, procuratore capo di Verona, hanno il sapore dolce-amaro del genitore cui sono stati tolti i figli. Niente di melodrammatico o di pietistico.
L’esplosione volontaria che alle 3:14 di martedì ha causato la morte a Castel d’Azzano, nella campagna veronese, di tre carabinieri, il ferimento più o meno grave di una ventina di persone (compresa la donna che ha innescato la deflagrazione dando fuoco ad alcune bombole del gas lasciate aperte) e il crollo dell’edificio si impone per quello che è: un fatto intriso di violenza gratuita.
Parte da lontano, da grossi problemi finanziari con protagonisti la stessa donna e i suoi due fratelli, da un’esistenza quotidiana vissuta ai margini della società, da un’ingiunzione di sfratto (che pare non c’entrasse con la presenza dei tre carabinieri, intervenuti per verificare la presenza di ordigni) tenuta in sospeso per le minacce proferite dai tre che lo occupavano.
I particolari richiedono tempo per essere precisati, ma di sicuro la situazione era tenuta da tempo sotto osservazione dalle forze dell’ordine anche per mezzo di droni che avevano rivelato la presenza di bombe molotov sul tetto dell’abitazione. Una vicenda di povertà economica e umana andata via via peggiorando, vissuta anch’essa all’interno di una famiglia nella quale però acredine e desiderio di vendetta verso la società ha fatto da collante.

Difficile, forse impossibile andare indietro nel tempo per ricostruire le origini di tale straordinaria follia. Se le conoscessimo, se avessimo cioè contezza dell’abisso in cui le storie dei tre fratelli sono precipitati man mano che crescevano e che magari sono partire da molto lontano, da infanzie negate, da giovinezze difficili, da sogni bruciati, potremmo non giustificare, ma almeno capire come si possa arrivare a tanto.
Ad uccidere deliberatamente chi altro faceva se non il proprio, difficile lavoro, messo così spesso sotto pressione, fisica e verbale, da quella parte malata della società (lo vediamo anche in certe manifestazioni di piazza in questi giorni) che guarda la realtà con cannocchiale girato al contrario e perciò vede nella “divisa” un nemico da combattere.
Tre fratelli accecati dall’odio contro altrettanti carabinieri, tre semplici tutori dell’ordine morti nell’adempimento del dovere: il luogotenente carica speciale Marco Piffari, 56 anni, il carabiniere scelto Davide Bernardello, 36 anni, il brigadiere capo qualifica speciale Valerio Daprà, 56 anni. “Fratelli” anche loro, ma di ben altra “famiglia”, finiti di notte sotto un lenzuolo.
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