Le gemelle Kessler si sono affidate per l'eutanasia a un'associazione che in Germania provvede a tutto. Con un solo obiettivo: non farci tornare indietro
Si chiama Deutsche Gesellschaft für humanes Sterben (DGHS) l’associazione per i diritti umani e per la tutela dei pazienti che ha aiutato le gemelle Kessler a morire. È considerata l’associazione più importante tra tutte quelle che si occupano di suicidio assistito in Germania, soprattutto per due motivi: discrezione ed efficienza.
La procedura prevista è piuttosto semplice: ci si iscrive all’associazione, pagando ogni anno una quota che supera di poco i 50 euro e si affrontano alcuni colloqui con un medico e un legale, che debbono verificare soltanto che le persone siano pienamente consapevoli di quanto stanno per fare.
Successivamente, d’accordo con il potenziale suicida che fissa una data precisa, si passa alla fase attuativa. È la prassi da seguire per il suicidio assistito in Germania, dove la pratica è legale a queste condizioni: agire di propria spontanea volontà, essere maggiorenni e avere capacità di intendere e volere.
In questo caso, il 17 novembre, Alice ed Ellen Kessler hanno girato una valvola per iniettarsi il siero letale, rimanendo nella loro abitazione di Grünwald, assistite da un medico e un avvocato. Avevano 89 anni, nessuna malattia grave, nessun dolore incoercibile, una buona condizione economica; una rete di rapporti umani che è difficile valutare quanto fosse profonda, ma certamente era fatta di nostalgia e ammirazione. E, cosa non da poco, coltivavano il desiderio di continuare a fare del bene, anche dopo la loro morte, al punto di trasferire la loro eredità su soggetti fortemente impegnati sul piano sociale.
Il ruolo delle associazioni
Difficile non porsi molte domande sulla loro decisione di morire, anticipando la morte pur di morire insieme. Difficile trovare argomenti per comprendere un gesto davanti al quale è impossibile restare indifferenti. Ma – almeno per chi scrive – è ancor più difficile capire che senso ha un’associazione per i diritti umani e per la tutela dei pazienti che si limiti ad affiancare i potenziali suicidi per accertarsi prima della loro piena consapevolezza sull’irreversibilità delle scelte fatte e poi fornire assistenza e strumenti necessari per il suicidio.
Ed è sul ruolo di associazioni di questo tipo che mi sembra interessante riflettere. Per chiedere di morire in Germania non c’è bisogno di essere malati, perché la Corte costituzionale afferma che ogni cittadino ha il diritto di disporre della propria vita e di terminarla quando e come crede.
In Germania non si può attribuire un valore ai motivi, non possono essere giudicati. L’unica condizione indispensabile, stabilita dalla Corte costituzionale, è che la decisione di morire e di porre fine alla propria vita sia presa in modo libero e responsabile.
Nel caso della DGHS si sa che ne fanno parte circa 50mila persone, che nell’ultimo anno ci sono stati 623 casi di suicidio assistito e quest’anno ci avvicinano agli 800. Ma solo il 15% dei tedeschi conosce questa possibilità, per cui è probabile che il caso delle Kessler porti ad una maggiore informazione e quindi anche ad una maggiore richiesta.
Una volta che l’associazione ha accertato la consapevolezza degli aspiranti suicidi su quanto stanno per fare, scatta – su richiesta degli interessati – la fase operativa. Nessuno svolge nei loro confronti un’azione inclusiva di solidarietà e di accompagnamento umano; nessuno giudica; nessuno offre uno spazio di riflessione alternativo; nessuno collabora a ridurre la percezione della propria solitudine; nessuno allevia neppure le eventuali condizioni di indigenza.

Le Kessler erano iscritte all’associazione da molti anni, ma avevano iniziato a pensare al suicidio assistito dall’anno scorso e quest’anno in modo più intenso. Nel frattempo, l’unico intervento dell’associazione è stato quello di verificare che non avessero cambiato idea. Non esiste una vita associativa come la intendiamo noi; i soci tra loro non si conoscono, non entrano in relazione per confrontarsi, per sostenersi o per condividere una riflessione sui valori, sulle scelte alternative possibili.
L’unico intervento possibile, una volta accertato il requisito iniziale della libertà consapevole, è quello di morire: quando e come si vuole, con alcune garanzie esplicite di efficacia.
È un’associazione con funzioni quasi notarili: verifica quel che l’individuo vuole davvero, dopo di che lo aiuta a perfezionare la sua richiesta fino al suo compimento. Ma sempre restando nell’ottica di un individualismo esclusivo e conclamato, a cominciare dalla Corte costituzionale, che rispetta la volontà del soggetto senza entrare in un giudizio di valore sui suoi valori, salvo quello della libertà.
Il team dell’associazione, fatto di medici, psicologi e avvocati, fa la stessa cosa: verifica che il soggetto voglia fare davvero ciò che sta chiedendo di fare: morire, anticipando la sua morte, qualunque siano le ragioni che lo spingono a farlo. Nessuna di esse ha importanza, purché sia salva la sua libertà. Ognuno resta intrappolato nella dinamica della sua stessa volontà.
Se lui vuole farlo, allora può farlo e può contare su tutto l’aiuto tecnico-operativo della associazione. Un aiuto sofisticato quanto basta per fargli credere che ha fatto tutto lui, schiacciando una famosa pompetta, mentre in realtà è l’associazione ad aver fornito prodotto e procedure: entrambi mortali. Ma la responsabilità resta in carico solo ed esclusivamente al soggetto suicida.
L’alternativa dell’amicizia
“Amiche care, non siate tristi, ci rivedremo sulle nuvole”. È la frase, secondo quanto ha riportato la stampa, che apre la lettera che Alice ed Ellen Kessler hanno lasciato alle loro amiche più care, la giornalista Carolin Reiber e la cantante Bibi Johns. Una lettera piena di gratitudine e di amore, l’hanno definita; tra l’altro nel pacchetto recapitato a Carolin, 85 anni, c’erano anche alcuni gioielli, tra cui una collana di giada che lei aveva sempre ammirato.
Tutte manifestazioni di un’amicizia che avrebbe potuto continuare nel tempo a conferma che c’erano ancora motivi per continuare a vivere e a condividere tante cose belle e buone.
Eppure, ad un certo punto questo ingranaggio si è interrotto e nessuno ha saputo ripararlo in modo adeguato. Per continuare a vivere c’è bisogno di un perché e questo perché ha le sue radici nella capacità di continuare ad amare, sterilizzando il proprio individualismo in un’apertura verso gli altri, che occorre valorizzare continuamente, coltivando la speranza che l’appuntamento sulle nuvole si può sempre rimandare, senza problemi. E forse, oltre le nuvole, c’è anche qualcosa di meglio.
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