Il caso della famiglia nel bosco di Palmoli costringe chi ha il senso delle domande vere ad fare un’operazione di chiarezza: non siamo padroni della vita
Nelle ultime settimane il caso della famiglia nel bosco di Palmoli (Chieti) ha occupato il dibattito pubblico più di molte questioni politiche. Dai talk-show alle agenzie, tutti hanno detto la loro. Ma dietro la cronaca resta una domanda semplice e quasi rimossa: come crescono davvero tre minori dentro una scelta educativa così radicale?
Per capirlo abbiamo parlato con il dottor Luca Luigi Ceriani, psicologo e psicoterapeuta familiare. Lo specialista evita ogni giudizio affrettato, tuttavia ribadisce un punto fermo: “I figli non sono un possesso: noi non siamo i padroni della loro vita”. Una frase che, dentro il rumore di queste settimane, rimette l’attenzione dove dovrebbe stare: sui bambini, non sulle polemiche.
Dottor Ceriani, come valuta, dal punto di vista psicologico ed evolutivo, una scelta di vita come quella praticata dai coniugi Trevallion e Birmingham?
Guardi, è un caso interessante perché ci costringe a tornare alla domanda-base: che cos’è la famiglia? Noi abbiamo finito per pensare che il suo compito sia proteggere ed escludere, come se il mondo “là fuori” fosse sempre minaccioso. La pandemia, da questo punto di vista, ha lasciato un’ombra lunga. In realtà la famiglia serve a introdurre, a creare rete, a far guardare con fiducia alle possibilità che la società offre. Per questo dico che alcune scelte che sono comprensibili per un adulto non possono bloccare il futuro dei figli. E questo mi fa pensare.
L’introduzione ai legami sociali che ha citato sembra l’opposto dell’autoreferenzialità. Ci può spiegare meglio?
Intendo dire che se il mondo si riduce alla famiglia, senza altre figure adulte, senza pari, senza confronto, si perde un pezzo fondamentale della crescita. I bambini hanno bisogno di pluralità. Se l’unica legge è quella di casa, il rischio è di crescere in un sistema chiuso. E un sistema chiuso, anche quando nasce da buone intenzioni, rimane chiuso.
In altre parole, la libertà del genitore non può trasformarsi in una forma di possesso, è così?
Sì, esattamente. In questi giorni molti parlano di “libertà educativa”, e va benissimo, ma la libertà non è proprietà. Non è “io decido tutto perché sono il genitore”. Educare i figli non significa sottrarli al mondo, significa prepararli al mondo. Il punto è semplice: noi non siamo i padroni della loro vita.
Un elemento molto discusso riguarda il rifiuto totale della tecnologia. Qualcuno lo considera protettivo. Altri lo leggono come isolamento. Come si trova una misura?
È una bella domanda, perché è un problema di metodo. Essere critici verso la tecnologia è legittimo: i rischi della digitalizzazione precoce li conosciamo tutti. Però rifiutare tout court il mondo non è una soluzione. E glielo dico proprio così: è più facile scappare in montagna che mettersi al lavoro su un’educazione condivisa. Qui entra in gioco la scuola. La famiglia e l’istituzione devono parlarsi, devono trovare un’alleanza. Non possiamo continuare con adulti divisi davanti ai figli.
A proposito di scuola: lei ha accennato più volte all’homeschooling come a un segnale di sfiducia. Perché?
Perché spesso nasce dall’idea che la collaborazione con la scuola sia impossibile. E questo crea una frattura: da un lato famiglie che vedono il proprio ruolo solo in chiave difensiva, dall’altro insegnanti che faticano a proporre percorsi condivisi. È una dinamica che non fa bene a nessuno. Soprattutto non fa bene ai ragazzi: se vedono adulti divisi, li considerano poco credibili. E questo, creda, lo vedo ogni giorno.
Veniamo alla socializzazione. Alcuni vicini hanno raccontato che i bambini giocavano con altri coetanei. Altri parlano di “lesione del diritto di relazione”. Come si distingue l’una dall’altra?
La socializzazione episodica non basta. Dal punto di vista clinico valutiamo la qualità e la continuità dei rapporti. Ci chiediamo: questi bambini hanno una rete reale? Hanno la possibilità di confidarsi con un adulto diverso dal genitore? Confrontarsi con pari diversi da loro? Non parliamo di un gioco ogni tanto, parliamo di relazioni che aiutano a crescere. È il primo indicatore di salute psicologica.
E crescere percependo l’altro come minaccia che effetto può avere?
Può avere effetti importanti. Non parlo di traumi automatici, non funziona così, ma crescere con l’idea che l’altro sia pericoloso rende più difficile fidarsi, aprirsi, esplorare. E noi siamo le relazioni che abbiamo. Non lo dico per slogan: è proprio il criterio clinico.
Oggi molti sostengono che “basta l’amore”. Lei dice che non è così. Perché?
Perché l’amore è necessario ma non sufficiente. L’amore dà calore, affetto, presenza. Ma ai figli servono anche criteri, riferimenti, un ordine simbolico dentro cui leggere il mondo. Io vedo genitori molto affettuosi ma fragili, spaventati all’idea di proporre qualcosa. Amare vuol dire anche dare strumenti con cui affrontare la vita, non solo accogliere.
E dentro questo quadro complesso, vede comunque un punto positivo?
Sì, lo vedo. I bambini della famiglia in questione apprendono dai genitori che la libertà è un valore. Che per la libertà si può anche stare in posizioni scomode. È un insegnamento forte. Però la libertà non è isolamento: è crescere dentro i legami, non fuori. La grande sfida sarà imparare a stare nel mondo. E – lo dico con convinzione – quella è la vera forma di libertà.
(Max Ferrario)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.