Finora l’inflazione è stata un fenomeno sviluppatosi in un contesto di ripresa economica e di consumi solidi, ma adesso la cornice nella quale la si guarda sembra cambiare. Negli ultimi giorni si accumulano le evidenze di un altro fenomeno: la debolezza dei consumi e l’indebolimento dell’economia. Il fenomeno è prevedibile, perché i salari reali non hanno tenuto il passo dell’incremento dei prezzi, soprattutto dei beni meno discrezionali: gas ed elettricità e alimentari. L’incremento dei prezzi di queste voci, superiore all’inflazione, colpisce il potere di acquisto delle famiglie in misura maggiore man mano che si arriva alla classe media e ancora di più “sotto” di essa.
La debolezza dei consumi è arrivata anche negli Stati Uniti. Il consumatore americano è il motore immobile che ha tirato fuori l’economia globale dalla crisi successiva al fallimento di Lehman Brothers e da quella dei debiti sovrani. Il prezzo è stato l’aumento del debito. Il calo dei consumi, mascherati in parte dall’aumento dei prezzi, è una spinta contraria all’inflazione. Se i consumi calano, il rapporto tra offerta e domanda si riequilibra e i prezzi smettono di salire o scendono.
Il rendimento delle obbligazioni americane ieri è sceso, mentre la Fed, in teoria, ha appena iniziato il percorso di rialzo dei tassi. Potremmo dire che la recessione, con la sua spinta deflazionistica, stia arrivando prima e più forte di quanto si pensasse qualche settimana fa. Il crollo delle borse, che fa sparire risparmi, è un’altra spinta deflazionistica; anche in questo caso il calo arriva mentre la Fed non ha ancora iniziato la ritirata dalle politiche monetarie espansive. Le spinte deflazionistiche lavorano a favore delle Banche centrali che oggi sono impegnate a contenere l’inflazione.
In un mondo “normale” non ci sarebbe molto altro da aggiungere. Non siamo però in un mondo normale, perché gli ultimi shock inflazionistici non sono il prodotto di una cattiva politica monetaria. Sono il prodotto della rottura delle catene di fornitura globale, a causa della guerra commerciale o combattuta, e della transizione energetica che impone extra costi per centinaia di miliardi sul sistema delle imprese e sulle famiglie. C’è meno offerta di energia e c’è meno offerta di prodotti per ragioni che hanno poco a che fare con le Banche centrali.
Giovedì il direttore del Fondo monetario internazionale ha dichiarato che per le Banche centrali è diventato più difficile contenere l’inflazione senza causare recessioni. Il direttore ha aggiunto che ci stiamo abituando all’idea che questo potrebbe non essere l’ultimo shock inflazionistico.
È in questo scenario che le Banche centrali e i Governi stanno immaginando strumenti di politica monetaria ed economica completamente nuovi. Le valute digitali emesse dalle Banche centrali sono un pezzo importante di questo sistema perché consentono di modulare le politiche monetarie con una capillarità oggi impensabile. Consentono di emettere moneta e di controllarla perfettamente durante tutti gli scambi. È una soluzione attraente per i Governi impegnati in un conflitto militare e in un cambiamento profondo dell’economia, la transizione energetica, che per i prossimi anni toglierà energia dal sistema e alle famiglie. Sono spinte inflazionistiche esterne che l’aumento dei tassi non può contenere; quell’aumento, anzi, peggiora la recessione.
Di fronte a questa prospettiva bisognerebbe chiedersi se non ci sia il pericolo di consegnare ai Governi occidentali un potere che non ha paragoni nella storia degli ultimi 80 anni. È il potere di controllare, ovviamente a fin di bene, anche l’ultimo euro, consegnato alla causa del “bene comune” che hanno deciso lo Stato e un gruppo di “competenti”. Una competenza che non è estranea al potere e all’ideologia, non fosse altro per i contributi pubblici che elargiscono. Forse è un prezzo troppo alto da pagare. Oltretutto proprio nelle stesse settimane in cui si celebrano i sacrifici fatti per rimanere liberi.
I soldi stampati allegramente dalle Banche centrali hanno tante controindicazioni, ma almeno lasciano tutti liberi.
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