Agosto è, dai tempi di Richard Nixon, il mese preferito per i blitz dei presidenti repubblicani. Nel 1971 i mercati vennero sconvolti dalla dichiarazione della non convertibilità del dollaro che segnò la fine del sistema inaugurato a Bretton Woods. L’annuncio dei nuovi dazi a carico delle importazioni cinesi, anche se assai più rozzo ed elementare di quel che fece il presidente del Watergate, promettono di avere conseguenze altrettanto serie, vuoi sul fronte della politica monetaria che dell’economia reale. Oltre, particolare non secondario, a sconvolgere il principio dell’indipendenza delle banche centrali, ultima vittima del look sovranista che va per la maggiore.Vediamo perché.
Trump ha annunciato dazi del 10%, elevabili al 25%, su ulteriori 300 miliardi di dollari di importazioni dalla Cina, in aggiunta di quelli al 25% su 250 miliardi, già in essere. La mossa, ancor più se combinata con una raffica di misure anti-Ue, dovrebbe imporre alla Fed, secondo il presidente Usa, un’altrettanto nutrita raffica di interventi sul costo del denaro per evitare l’asfissia dell’economia. Trump, a leggere i suoi tweet, si è convinto che se la Fed tagliasse aggressivamente i tassi, gli Stati Uniti sbaraglierebbero la Cina e gli altri competitors. Perciò, una volta preso atto che le manovre per mettere a posto i banchieri della Fed (tra cui un tentativo, per fortuna rientrato, di licenziare Powell) non hanno funzionato, il presidente ha deciso di forzare la mano alla sua banca centrale scatenando la corsa al ribasso dei tassi e, di riflesso, del dollaro che, secondo la sua filosofia, sono gli ingredienti fondamentali per ridare energia alla competitività del made in Usa.
Si misurerà presto l’efficacia di questa politica che, per ora, è la prima responsabile della frenata del commercio mondiale e della crescita. A partire dalla risposta di Pechino che, tra l’altro, ha già ridotto la dipendenza dall’export negli Usa e in parallelo tagliato gli acquisti di T-bond Usa. Oltre a rispondere picche alla richiesta di Washington di bloccare l’export e la produzione di Fentanyl, il micidiale oppiaceo sintetico in arrivo dall’Asia che sta invadendo le strade americane, in una sorta di guerra dell’oppio a parti rovesciate.
Si profila uno scontro senza esclusione di colpi. Di qui il sospetto che la prossima mossa di Trump sarà quella di ordinare al Tesoro di vendere dollari per deprezzare il biglietto verde obbligando la Fed a comprare valuta a vagoni. Nel frattempo proseguirà, grazie anche al sostegno del fisco, l’acquisto di azioni proprie da parte delle società americane che consente agli amministratori che hanno i bonus indicizzati alle quotazioni di Borsa di diventare sempre più ricchi mentre le società sono sempre più indebitate (ma a interessi infimi).
Anche questa è una delle possibili conseguenze della politica di rendimento sempre più basso del denaro, l’unica droga monetaria che sembra sia rimasta a disposizione dei mercati. Ma non mancano le alternative più o meno fantasiose alla soluzione obbligata nel Vecchio Continente perché i governi non hanno né la volontà né la forza di agire sul fronte della politica fiscale, come suggerisce Mario Draghi. Eppure è ormai quasi scontato che l’Europa dovrà replicare alle misure Usa con provvedimenti eccezionali. È alle porte un nuovo Quantitative easing, magari rinforzato da misure alla giapponese, vedi l’acquisto di titoli azionari attraverso gli Etf come da anni fa la Bank of Japan. O da soluzioni ancora più estreme che si accompagnano all’esplosione dei tassi negativi, quelli che la Svizzera così come i Paesi scandinavi pratica da tempo. In linea con il Giappone dove, pur di trovare una soluzione per far fruttare i propri soldi, i risparmiatori comprano un po’ di tutto, comprese le casseforti in cui tenere banconote e lingotti.
Insomma, tassi zero al servizio della crescita zero.