Legge sul fine vita: il recente “confronto” tra mons. Paglia e il card. Ruini sembra terminare in un vicolo cieco. Ma una via d’uscita c’è
Il dibattito sul fine vita, e sulla necessità o meno di avere una legge che possa regolamentarlo, ha raggiunto un alto livello di contrapposizione nell’ambito della gerarchia della Chiesa cattolica, tanto che non ci si può stupire se tra i cattolici si trovano posizioni molto diverse.
Il contrasto tra chi è favorevole alla legge e chi invece è contrario è emerso da due importanti interviste riportate dal quotidiano La Stampa, che ha coinvolto sia mons. Vincenzo Paglia, presidente emerito della Pontificia accademia per la vita, favorevole alla legge, sia il cardinale Camillo Ruini, presidente emerito della Conferenza episcopale italiana, del tutto contrario, che ha ribadito: “Meglio nessuna legge che una cattiva legge”, soprattutto se la legge finisce con legittimare il suicidio assistito.
Due posizioni chiare e nette, che obbligano tutti noi a riflettere seriamente, prima di prendere l’una o l’altra delle posizioni, anche in prospettiva del dibattito parlamentare che si riaprirà a settembre.
Mons. Paglia sembra avere ben presente lo scenario culturale attuale, in cui i sondaggi che risalgono ad un anno fa affermano che il 77% degli italiani è favorevole al suicidio assistito, il 75% all’aborto e il 52% alla gestazione per altri. Sono percentuali che attraversano un po’ tutti gli schieramenti politici, anche se trovano a sinistra un consenso più chiaro ed esplicito.
Il cardinal Ruini non ne fa una questione né di statistiche né di sondaggi e afferma in modo lapidario: “Sopprimere un’esistenza non potrà mai essere eticamente accettabile”.
A ben leggere, nelle due interviste esiste un nodo centrale in cui entrambi convergono senza eccezioni di sorta: la difesa della vita, come diritto fondamentale da tutelare in ogni modo possibile. Ma evidentemente gli approcci sono diversi e la legge sembra giocare un ruolo decisamente diverso.
Dal punto di vista metodologico, per Paglia la legge dovrebbe avere una funzione prevalentemente regolatoria e dovrebbe porre dei limiti, validi su tutto il territorio nazionale; per Ruini, la legge – ogni legge – ha anche una forte valenza pedagogica, e il rischio in questo caso è che si possa creare un pendio scivoloso verso una normalizzazione dell’eutanasia. D’altra parte, è quanto sta già accadendo ed è accaduto con altre leggi eticamente sensibili negli anni precedenti. Mentre si dibatte di depenalizzazione del suicidio assistito, nel lessico comune il termine più usato è quello di legalizzazione; e se finora al centro del dibattito c’era il suicidio assistito, ora una certa opinione pubblica sta già virando verso l’omicidio del consenziente e si moltiplicano i nuovi disegni di legge che reclamano esplicitamente il riconoscimento dell’eutanasia.
Il pendio scivoloso evocato dal cardinal Ruini è già nei fatti e nelle iniziative sottoposte sia al Parlamento che alla Corte costituzionale.

E se finora la principale giustificazione invocata per ottenere una sorta di lasciapassare per il suicidio assistito era il dolore incontrollabile del paziente, la sua patologia a prognosi infausta, ora la principale argomentazione è già diventata la tutela del diritto a disporre di sé nel modo più autonomo possibile.
In altri termini, chiedo di accedere al suicidio assistito non perché non ce la faccio più a vivere in un determinato modo, ma più semplicemente perché è un mio diritto vivere come voglio. Non chiedo pietà o comprensione, ma semplicemente reclamo ciò che mi è dovuto: rimuovere gli ostacoli che si frappongono tra me e la mia stessa volontà, per poter agire come meglio credo e come fanno tante altre persone.
Resta pur sempre un’unica condizione, un vincolo inamovibile, almeno sul piano teorico: la mia volontà, libera e senza condizionamenti di sorta. Eppure, sappiamo che nei Paesi in cui la legge è stata approvata il maggior numero di richieste viene da parte di pazienti che presentano concomitanti patologie di tipo psichiatrico, comprese varie forme di declino cognitivo, oppure sono soli, con scarse risorse economiche.
Studi e ricerche in tal senso sono facilmente reperibili in Canada, ma anche in Europa, in Belgio e in Olanda. I numeri sono davvero impressionanti e la presenza della legge, inizialmente severa e rigorosa, si è progressivamente aperta fino ad includere pazienti depressi e perfino minori.
L’esperienza, quindi, sembra mostrare che fare una legge, una buona legge, sia quasi impossibile. E la domanda a questo punto diventa: ma si potrebbe fare una buona legge? Che caratteristiche dovrebbe avere, anche per rispondere alla affermazione del cardinal Ruini, secondo il quale “Meglio nessuna legge che una cattiva legge”?
In primo luogo, dovrebbe essere una legge schierata a difesa della vita, come diritto fondamentale da tutelare in ogni modo possibile, non solo attraverso le pur indispensabili affermazioni di principio, ma anche e soprattutto attraverso indicazioni, decreti attuativi concreti e adeguatamente finanziati.
Paglia sostiene che il problema più grave in questo campo è quello dell’abbandono terapeutico, perché troppi malati gravi sono lasciati soli. E in questo ha ampiamente ragione, non a caso se c’è un punto su cui tutti sono d’accordo, questo è l’urgente necessità di ampliare e facilitare l’accesso alle cure palliative.
Le cure palliative sono al centro del dibattito sul fine vita, il vero punto di convergenza anche tra posizioni ideologicamente contrastanti, soprattutto se si riesce ad offrirle in modo qualitativamente elevato e in misura corrispondente ai bisogni. Cosa oggi quasi impossibile da ottenere. Ci sono liste di attesa per accedere agli hospice che spesso si risolvono solo con la morte del paziente e con uno strazio e una sofferenza delle famiglie difficile da “curare”.
È tragico da dire, da scrivere e ancor più da pensare: ma per morire dignitosamente in un centro di cure palliative occorre attendere che qualcuno muoia, deve liberarsi un posto! Questo può richiedere lunghi tempi di attesa proprio per la carenza di posti letto.
Oppure l’alternativa è morire prima, a casa, a volte da soli, o in qualche letto d’ospedale, dove non si possono ricevere le cura specifiche necessarie, dal momento che le esigenze sono cambiate e la propria vita e la propria dignità esigono una presa in carico diversa.
I centri di cure palliative sono troppo pochi, soprattutto da Roma in giù. Il paradosso è che non si può neppure scegliere il centro di cure palliative in cui si vorrebbe andare a trascorrere l’ultima fase della propria vita, perché la gestione delle liste di attesa è tale che l’offerta è centralizzata e anonimizzata.
Oggi si muore come si può e dove si può; questo mentre il dibattito sul fine vita sfiora livelli ideologici che non riguardano l’esperienza concreta di moltissime persone, gravemente malate, che non vogliono rinunciare al diritto di essere curate. Il dibattito attuale in realtà è centrato sul diritto di morire, mentre dovrebbe essere ancora centrato sul diritto di vivere l’ultima fase della propria vita nel modo più dignitoso possibile, parlando di vita e di qualità di vita. Curare, assistere, accompagnare, assecondando il paziente nei suoi bisogni e nei suoi desideri, questa è in definitiva la ragion d’essere della professione medico-infermieristica.
La legge sul fine vita, se ci sarà, non può essere e non deve essere una legge sul suicidio assistito. A nessun titolo e per nessuna ragione. Può e deve essere una legge che mette il SSN in condizione di offrire al malato nell’ultima fase della sua vita il meglio delle risorse di cui dispone, le famose cure palliative nella pienezza del significato che hanno.
Non dimenticando che sono rivolte a persone che hanno speso la loro intera esistenza al servizio della propria famiglia e della società, con il loro lavoro e con il contributo concreto dei loro talenti, tanti e pochi che siano, ma con tutti quelli di cui dispongono.
La solidarietà che si esprime nei loro confronti è pur sempre una piccola restituzione e la legge, se ci sarà e se vogliamo che sia una buona legge, deve collocarsi in questo unico spazio accettabile, quello della vita che resta da vivere perché sia la miglior vita possibile. Questo potrebbe mettere d’accordo tutti i cattolici e non solo loro!
Abbreviarla non è e non può essere una soluzione e tanto meno può essere al centro di una buona legge.
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