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Home » Economia e Finanza » Economia Internazionale » Fed & Dollaro » FOCUS INFLAZIONE/ I pericoli che allontanano la Fed da un altro rialzo dei assi

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FOCUS INFLAZIONE/ I pericoli che allontanano la Fed da un altro rialzo dei assi

Giovanni Ricci
Pubblicato 14 Ottobre 2023
Jerome Powell, presidente della Fed (Lapresse)

Jerome Powell, presidente della Fed (Lapresse)

Gli Stati Uniti, per via del petrolio, restano esposti al fenomeno inflattivo. La Federal Reserve, quindi, non premerà più sui tassi

Giovedì è stato diffuso il dato tendenziale annuo dell’inflazione Usa riferito al mese di settembre, risultato essere del 3,7%, quindi superiore di 0,1 punti alla stima riportata da Bloomberg che raccoglie le stime di operatori del mercato di Wall Street. Nel mio intervento di stima, invece, avevo indicato un valore puntuale del 4,3% con valore minimo dell’intervallo del 4%; elaborazione pertanto affetta da sovrastima evidente, dovuta a un effetto di parametrazione dei valori più lenti nel loro dispiegarsi.


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In sostanza, soprattutto rispetto al mio intervallo minimo di riferimento, e cioè il 4%, effetti che venivano conteggiati nel mese stesso di riferimento si spostano al successivo, e questo per l’azione dei tassi di interessi più alti che rallentano i meccanismi di propagazione, senza poter però influire come già molte volte detto sulle loro cause. A ottobre avremo il cumulo degli effetti che non si sono scaricati a settembre, e per tale motivo, già da ora, una prima stima tendenziale per quest’ultimo mese è in un intorno del 4% inflattivo, e non più per ora di un precedente 4,5-5% evidenziato, a causa delle dinamiche del prezzo del petrolio, che da un intervallo intorno ai 93 dollari per barile Wti di fine settembre-inizio ottobre ha per ora ritracciato in un’area degli 84-85 dollari.


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In sintesi, l’inflazione degli Usa non demorde come erano le attese, anzi si può affermare che passato il mese di ottobre, da novembre e fino a marzo, con i valori medi attuali del petrolio e in invarianza di tassi si giungerà al 5,5%; ma va sottolineato per bene che parliamo di prezzi del petrolio che non superino gli 85 dollari al barile Wti, in quanto senza tale condizione stringente le stime sono tutte a rialzi inflattivi più pronunciati.

In più chiare lettere, come già tante volte affermato e sottolineato, l’attuale politica dei tassi della Fed ha molte più implicazioni di politica valutaria che monetaria, in quanto a livello monetario e di domanda interna dà contributi scarsi e non del tutto efficaci all’abbattimento sic et sempliciter dell’inflazione, dovendo confrontarsi con disavanzi di spesa alti e permanenti del bilancio federale, che altro non fanno che mettere in mano a tanti operatori, consumatori e imprenditori, quella capacità di spesa aggiuntiva che non fa spegnere il fenomeno inflattivo in maniera semplice e lineare.


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Diventa altresì importante attendere il dato definitivo dell’andamento trimestrale del Pil Usa che io attendo in sensibile ribasso, per aversi poi nell’ultimo trimestre dell’anno una stima di una prima e vera contrazione; siamo, dovremmo essere all’anticamera di una stag-flazione, che viene ritardata solamente da atteggiamenti molto espansivi del bilancio pubblico, e che hanno oramai nella dilatazione terribile del debito pubblico importanti segnali preoccupanti prossimi a venire.

Solo per dare una prima immagine spiazzante, si deve immaginare che gli Usa del 1960 circa, a fronte di un debito pubblico di 33.500 miliardi di dollari, avrebbero avuto un Pil di circa 72.000 miliardi di dollari al posto degli attuali 24.300 stimabili del 2023; in altre parole, la spesa è andata fuori controllo e alimenta solo se stessa alla fine con alti tassi di crescita e bassi per quelli sul fronte del Pil.

Questo è un altro lato per descrivere perché il tasso inflattivo di settembre non si sia già posizionato nell’area del 4%. Ma l’attore principale resta il petrolio e le sue dinamiche acuite in questo momento dal turbinio e dalla congerie di problemi che stanno avvenendo nel Medio Oriente: se, infatti, tali problematiche si inaspriscono, la ricaduta sui prezzi potrebbe essere drammatica.

Ci troveremmo di fronte a una spirale simile a quella degli anni ’70 con due grosse differenze; la prima è che i debiti pubblici degli anni ’70 dei Paesi del G7 erano mediamente il 45-50% dei propri Pil, mentre oggigiorno dobbiamo parlare di una media del 100-110; la seconda grossa differenza è lo status del dollaro americano che oggi è valuta benchmark degli scambi internazionali e ancora riserva maggiore in assoluto degli attivi delle banche centrali.

Come varie volte evidenziato. tali funzioni monetarie di scambio e di riserva sono in trend di discesa abbastanza pronunciato, a tal punto che le stesse istituzioni finanziarie americane si preparano e stimano un prossimo cambiamento di paradigma intorno ai 4-5 anni a partire da oggi. In sostanza, il dollaro a stelle e strisce non più a fondamento dell relazioni economiche internazionali, sebbene probabilmente ancora divisa più influente, e quindi non più efficace come oggi a contenere il fenomeno inflattivo all’interno della nazione.

Ritorniamo, pertanto agli incipit iniziali e cioè che la politica di innalzamento dei tassi della Fed ha ricadute di efficacia sensibile in termini di politica valutaria, in quanto portando a un apprezzamento del dollaro non naturale e di per se stesso pericoloso, favorisce basso prezzo di importazione per le materie prime, tra le quali il petrolio. Anzi, qui giova dire e ribadire con molta chiarezza che al di là di proclami propagandistici sugli Usa come maggiori produttori mondiali di petrolio – dato falso e vero a seconda dei singoli giorni, in quanto ad esempio molte volte sono Russia e Arabia Saudita a produrre di più a livello giornaliero, e quindi a fine anno l’unica verità robusta è che questi tre Paesi sono gli unici a livello mondiale a poter produrre sopra i 10 milioni giornalieri medi per tutto l’anno – resta il dato di fatto che gli Usa importano barili di petrolio dall’esterno per quantità giornaliere che variano tra i 7,5 e i 9 milioni di barili giornalieri; la fortuna degli Usa è che circa il 42% di questo quantitativo è fornito dal Canada. Il resto, Messico per un altro 16% circa e il residuo, Golfo Persico e Russia, in triangolazioni fantasiose.

Insomma, gli Usa sono totalmente esposti al fenomeno inflattivo con meccanismo di trasmissione basato sulle quotazioni del petrolio, e stanno invece entrando in una pericolosa e non mantenibile spirale potenziale dei tassi di interesse. Alla Fed sanno il loro mestiere ed ecco perché non premeranno più sui tassi, non lo faranno perché iniziano a manifestarsi altri pericoli.

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Tags: InflazioneEconomia USA

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