Il Museo Diocesano di Milano ospita una mostra dedicata a Dorothea Lange, a 130 anni dalla nascita e a 60 dalla morte. Fino al 19 ottobre 2025
“Non si è fotografi se prima non si è uomini”. Così ci disse all’inizio del corso di “Lettura ed estetica dell’immagine fotografica” il professore Roberto Rosso, titolare, tra l’altro, della cattedra di fotografia all’Accademia di Belle Arti di Brera. Una frase che da mesi mi torna alla mente tutte le volte che impugno la mia macchina.
E nelle foto di Dorothea Lange (1895-1965) c’è proprio questo. C’è tutto il suo essere persona fino in fondo, c’è quella sensibilità umana e quella capacità di “vedere” la realtà oltre il sentire comune, di cogliere ciò che ai più passa sotto il naso senza essere visto o che, se visto, viene dato per scontato.
Ma c’è anche il desiderio, quasi l’urgenza, di fare conoscere questa realtà, di comunicarla. Per lei, infatti, “la macchina fotografica è uno strumento che insegna alla gente come vedere senza una macchina fotografica”.
Nelle sue foto nulla è costruito: è la realtà che si impone con tutta la propria drammaticità. Sia nella visione d’insieme, sia nell’esaltazione del particolare tutto è finalizzato a far emergere la realtà per quella che è. La stessa perfezione della composizione e dell’uso sapiente della luce e del contrasto, frutto del suo estro e dell’esperienza acquisita negli anni passati come ritrattista, non è mai fine a sé stessa, ma tesa al messaggio che intende evidenziare: è il messaggio a dover prevalere.
Nata nel 1895 a Hoboken (New Jersey), vede la sua infanzia colpita da due eventi particolarmente negativi: l’aver contratto all’età di sette anni la polio, che le lascerà una zoppia alla gamba destra per tutta la vita, e, cinque anni dopo, l’abbandono della famiglia da parte del padre.
Eventi negativi che certo hanno condizionato il suo modo di guardare la realtà e le persone, determinandone la poetica. Così giudica la sua malattia: “forse è stata la cosa più importante che mi è successa. Mi ha formato, guidato, istruito, aiutato e umiliato”.
Lange studia fotografia a New York, qui collabora con alcuni celebri fotografi, per trasferirsi poi a San Francisco dove apre un proprio studio fotografico con il quale raggiunge un notevole successo scattando ritratti per la borghesia locale.
Arrivano gli anni della Grande Depressione conseguenti alla crisi di Wall Street. Alla Lange non passa inosservata la disparità tra la vita delle persone facoltose che ritrae e quella della gente senza lavoro e senza soldi che riempie le vie della città.
Lascia così il proprio studio per dedicarsi alla fotografia documentarista e sociale e per far conoscere questa nuova realtà. Le sue fotografie vengono apprezzate e la portano a lavorare per la Farm Security Administration, agenzia governativa statunitense, che ha come obiettivo l’aiuto ai contadini colpiti dalla crisi rurale esplosa in quegli anni.
La Lange si butta anima e corpo in questa attività e migliaia sono i suoi scatti. Migranti, contadini con le loro famiglie, persone di colore sono i suoi soggetti; fatiche e povertà, diseguaglianze e ingiustizie sociali la sua testimonianza.
Immortala situazioni e volti terribilmente segnati dalle difficoltà ma al contempo pieni di dignità e speranza, e lo fa sempre con grandissima empatia, entrando in rapporto diretto con i soggetti delle proprie fotografie. Nascono così opere di straordinaria intensità, dove la realtà è documentata anche dalle didascalie che scrive a corredo.
La storia va avanti, e a seguito dell’attacco di Pearl Harbor ad opera dei giapponesi gli USA entrano in guerra e identificano come nemici anche i giapponesi-americani, quelli cioè nati e cresciuti in America. Nemici magari solo potenziali, ma sempre nemici.
Decidono così di internarli in quelli che si riveleranno dei veri e propri campi di prigionia. A documentare questo trasferimento, con l’intento di legittimarlo dimostrando che, per quanto forzato, è ordinato, dignitoso e gestito con rispetto, il governo americano chiama la Lange. Ma la verità che appare dalle sue foto dice tutt’altro. La Lange viene licenziata e le sue foto secretate fino al 2006.
Nella mostra a Sant’Eustorgio tutta la filosofia e la poetica di Dorothea Lange sono a nostra disposizione, davanti ai nostri occhi. La storia e la vita di migliaia di persone emergono dalle sue opere per parlarci del mondo e di come, attraverso un obiettivo, è possibile raccontarlo, perché – per usare le sue parole – “per quanto brutto, il mondo è potenzialmente pieno di buone fotografie. Ma per essere buone, le fotografie devono essere piene del mondo”.
La Lange è una grande testimone e una grande maestra. Lo si vede anche dall’esortazione che i curatori hanno voluto riportare per chiudere il percorso della mostra: “Vorrei aggiungere qualche parola e incoraggiare coloro che si interessano alla fotografia a concentrarsi sul ritrarre la vita che li circonda, ad alzare lo sguardo per abbracciare ciò che accade intorno a loro, a usare la macchina fotografica per trasmettere questa consapevolezza”.
A ben guardare, un invito che dovremmo raccogliere tutti. Con e senza macchina fotografica.
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