A Milano, fino al 7 settembre, la mostra a Palazzo Reale “Mario Giacomelli. Il fotografo e il poeta”. Oltre la realtà, oltre la fotografia
Non è possibile avvicinarsi alle foto di Mario Giacomelli (1925-2000) pensando di guardare un reportage: ciò che vediamo dalle sue foto non è la realtà per come la si vede normalmente, ma una realtà – se ancora la si può definire tale – estremizzata, destrutturata e finanche ricostruita, perché, nell’intento dell’autore, la foto deve restituire, a chi le osserva, sensazioni, emozioni e riflessioni così come sono state consegnate a lui nel momento dello scatto: “io, il profumo che ha il fieno dopo la pioggia, l’ho imparato dopo che ho comperato la mia macchina fotografica”. La macchina, quindi, diventa, sono parole sue, “un prolungamento della mia idea”.
Per perseguire il proprio obiettivo, Giacomelli stravolge i canoni formali della fotografia, distorcendo o, se si preferisce, superando la tecnica “classica”.
Vediamo così portare all’eccesso il bianco e nero, con neri profondi e bianchi accecanti dove i grigi sono pressoché inesistenti, esasperare il contrasto, esaltare ed essenzializzare le forme.
Come si diceva, la realtà è trasformata ma non solo. Non rimane immutata, le viene data nuova forma, nuova vita, per “dare respiro alle cose grazie a questo pretesto chiamato Fotografia”. Ecco, quindi, che Giacomelli opera sovrapposizioni di negativi scattati in luoghi e tempi diversi mettendo in relazione tra loro realtà differenti.
Ecco spiegato perché chiede ai contadini di tracciare nel terreno precisi solchi, secondo disegni da lui precedentemente definiti, per fotografarli poi dall’alto; perché isola dal tempo e dallo spazio alcuni suoi soggetti; o, più semplicemente, perché in una serie nuova ripropone scatti di serie precedenti.
Tra le tante iniziative promosse per celebrare i 100 anni dalla nascita di Giacomelli spicca in particolar modo la mostra a Palazzo Reale a Milano aperta fino al 7 settembre 2025.
Se nella mostra dedicata a Giacomelli da poco conclusa a Roma ci si è concentrati sulla relazione tra la sua opera e le arti visive contemporanee, a Milano, invece, si è guardato al suo grande legame con la poesia.
“Io non ho fatto una fotografia, ho raccontato di un poeta, con la stessa voce, lo stesso respiro. Che mi frega dell’immagine? Io la faccio per raccontare, per farti capire […] L’immagine fotografica nasce da quel che ha creato dentro di me la parola. […] Però io racconto, non illustro. Vedo le immagini del poeta, ma poi cerco emozioni nuove”.
Tanti sono i poeti che hanno ispirato Giacomelli. Nella mostra milanese possiamo trovare, tra l’altro, fotografie ispirate da brani di Cardarelli, di Montale, di Permunian, di Corazzini, di Costabile.
La poesia di quest’ultimo, Il canto dei nuovi emigranti, chiude il percorso.
Se Giacomelli era molto attaccato alla sua terra natìa, le Marche, nondimeno Franco Costabile (1924-1965) viveva intensamente la sua Calabria. E i parallelismi tra i due non sono pochi, come hanno anche sottolineato Katiuscia Biondi – nipote del fotografo – e Domenico Piraina – direttore di Palazzo Reale – durante l’incontro tenutosi a Palazzo Reale il 7 luglio scorso dal titolo: Il canto dei nuovi (e)migranti. Immagine e poesia di Mario Giacomelli.
Entrambi i nostri artisti sono cresciuti senza padre; essendo coevi hanno avuto lo stesso humus culturale – ermetismo e neorealismo –; erano antiretorici; capaci di trovare l’emozione nelle cose più semplici restituendoci una poetica emozionale, ciascuno con il proprio personale linguaggio, chi con le parole chi con la luce.
Nella poesia di Costabile si parla della dolorosa emigrazione dei giovani del Sud che nel dopoguerra e negli anni del boom economico lasciano la propria terra per cercare lavoro altrove. È un tono dolente e rassegnato ma non patetico.
La lettura di questi versi dà a Giacomelli una sorta di slancio, di linea guida: visita molti paesi calabri, ma non le belle coste, bensì i paesi di quella campagna di cui lui stesso è figlio, ritrovando in tal modo il proprio punto ancestrale. Fotografa una realtà fatta di ossimori e in particolare quello dell’assenza-presenza: il paese di Pentedattilo lo colpisce particolarmente perché “vedi un paese – dove gente ha vissuto, è nata, ha sofferto, ha goduto – ora abbandonato. E ricordo di essere stato per il corso, sembrava tutto abbandonato. Poi sono arrivato in cima a questa strada […] e vedo che avevano piantato dell’insalatina, cipolle… e allora qualcuno sicuramente era a un passo da me. Sembrava un posto abbandonato, come chiuso al mondo, e invece ho trovato inaspettatamente la vita”.
Giacomelli rimane colpito dal mistero di quei luoghi dove grande era l’accoglienza della gente che gli offriva tutto, pur non avendo niente e ci restituisce personaggi come sospesi in un’immobilità perenne, inseriti nel loro pessimismo vitalistico, altro ossimoro, come ha ricordato Luigi Franco, direttore della casa editrice Rubbettino molto legata alla figura di Costabile, durante l’incontro del 7 luglio.
Ancora una volta la fotografia di Giacomelli “si fa visione poetica” con una profonda riflessione sul tema dell’assenza e della perdita.
La mostra contiene anche molti appunti manoscritti di Giacomelli che tanto dicono del suo sentire e del suo agire. Ci piace chiudere con queste parole: “Io so che è il paesaggio che sceglie me per essere ritratto, è lui che dialoga con la mia interiorità, mi regala nuovi interrogativi che sono interlocutori con i tempi della vita, del destino, dell’aria che lo copre con la sua voce, della luce che lo segna come un dono irrepetibile”.
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