GERMANIA IN DEFICIT COMMERCIALE/ I guai delle scelte Ue ricadono anche sull’Italia
Per la prima volta dal 1991 la Germania ha registrato un deficit commerciale dopo tre decenni di surplus. Un allarme anche per l’industria italiana

Per la prima volta dal 1991 la Germania ha avuto un deficit commerciale dopo tre decenni di surplus. La ragione di un andamento che nel Paese teutonico non si è mai visto negli ultimi tre decenni è semplice: i prezzi delle importazioni – energia, cibo e componenti su tutte – sono saliti del doppio rispetto a quelli delle esportazioni.
I prezzi dell’energia dopo l’inizio della guerra in Ucraina e la decisione dell’Europa di imporre sanzioni sono esplosi e oggi il prezzo di riferimento del gas europeo è quasi dieci volte più alto di un anno fa. La rottura delle catene di fornitura globale mette sotto pressione le fabbriche che spesso si fermano per mancanza di componenti. In questo scenario una potenza industriale e trasformatrice come la Germania, che non è autosufficiente dal punto di vista energetico, entra in crisi profonda. L’industria italiana, legata a doppio filo a quella tedesca, subirà il contraccolpo. La Germania era il Paese con il più alto surplus commerciale nei confronti della Cina; è un dato che esemplifica il successo economico tedesco costruito con abilità e investimenti e grazie a un contesto economico favorevole fatto di energia economica e abbondante e pace.
Il successo economico tedesco, e in un certo senso dell’Unione europea, è tanto straordinario quanto fragile. Il responsabile dei sindacati tedeschi ieri ha dichiarato alla Bild che “a causa dei limiti alla fornitura di gas, interi settori sono a rischio di un collasso permanente”; “un collasso di questo tipo avrebbe conseguenze massicce per l’intera economia e per l’occupazione in Germania”.
Nel caso tedesco, e italiano, il problema dell’incremento del prezzo del gas e dell’inflazione in generale non è solo una questione di impoverimento del ceto medio che deve tagliare i consumi e che rischia di dover subire razionamenti. È l’intero modello economico e industriale che rischia di saltare perché viene meno la premessa necessaria per la sua sopravvivenza; senza l’elettricità e i combustibili anche la fabbrica più moderna, efficiente e meglio gestita non ha alcun valore esattamente come la macchina più costosa con il serbatoio vuoto.
Si potrebbe ovviare alla rottura delle catene di fornitura globali e all’indisponibilità di materie prime riportando in Europa alcune produzioni. È un processo costoso e lungo che implica la reindustrializzazione di settori o subsettori che da anni erano stati appaltati a Paesi con il costo della produzione basso. Costruire nuove fabbriche e farle funzionare richiede materiali ed energia prima, durante e dopo. Senza queste premesse è impossibile. Ad avvantaggiarsi di questa situazione saranno gli Stati che riusciranno a garantire queste condizioni; in Europa molto probabilmente la Polonia. Gli Stati che non riescono a promuovere questo processo e devono fermare le fabbriche o per mancanza di energia o perché non più competitive subiranno una deindustrializzazione forzata a favore degli altri.
I prezzi dell’energia, infatti, non sono gli stessi per tutti. Alcuni Paesi dentro e fuori l’Europa, soprattutto fuori, hanno subito incrementi molto inferiori agli altri e quindi oggi sono strutturalmente più competitivi. Il problema tedesco e italiano non è risolvibile dalla Bce.
Il deficit commerciale tedesco, per la prima volta dal 1991, è coerente con gli allarmi che arrivano da mesi dal mondo industriale, da ultimo, ieri, quello dei sindacati. Siamo oltre una “crisi” economica. Il rischio è che si apra una fase di crisi sociale che dovrebbe ricondurre a miti consigli, anche sul versante “green”, la politica. Per non emettere gas basta chiudere tutto. Poi bisogna chiedersi come sfamare quelli che ci sono.
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