I paesi dell'ASEAN sono costretti a scegliere fra USA e Cina. Pechino non dà fiducia ma è sempre più influente: gli americani perdono terreno
Il Sudest asiatico ha quasi 700 milioni di abitanti, ed è costretto a convivere con la crescente rivalità tra Stati Uniti e Cina. Per decenni, i leader della regione hanno cercato di evitare una scelta netta, proclamando la volontà di rimanere neutrali. Ma questo fragile equilibrio si sta sgretolando.
La competizione tra le due superpotenze si intensifica, e il quadrante sta scivolando inesorabilmente verso l’orbita di Pechino, minacciando di lasciare gli Stati Uniti ai margini di un continente cruciale per il loro futuro globale.
La fine dell’ordine globale post-Guerra fredda ha spalancato le porte a una nuova era di competizione tra grandi potenze. La Cina si è affermata come un colosso che sfida l’egemonia americana. Secondo il Lowy Institute, entro la fine degli anni 2010 il potere complessivo di Pechino si avvicinava al 90% di quello degli Stati Uniti.
Oggi l’ombra di Pechino si allunga su tutta l’Asia sudorientale, dove i Paesi, volenti o nolenti, si trovano costretti a scegliere di stare da una parte o dall’altra. La regione, con il suo peso demografico ed economico, è diventata un’arena cruciale per la lotta tra Washington e Pechino, e la neutralità sta diventando un lusso insostenibile.
L’Anatomy of Choice Alignment Index, che misura l’allineamento dei Paesi ASEAN attraverso 20 indicatori, rivela una tendenza inquietante. Negli ultimi 30 anni Paesi come Indonesia, Malesia, Singapore e Thailandia hanno cercato di mantenere un equilibrio precario, con punteggi di allineamento tra 45 e 55. Tuttavia, il loro movimento verso la Cina è evidente. L’Indonesia, ad esempio, è passata da un punteggio di 56 (leggermente pro-USA) nel periodo 1995-2009 a 43 (pro-Cina) nel 2010-2024. La Thailandia è scesa da 49 a 41, mentre la Cambogia, il Laos e il Myanmar si sono ancorati saldamente a Pechino, con punteggi rispettivamente di 34, 25 e 23. Solo il Vietnam mostra un lieve avvicinamento agli Stati Uniti, ma rimane cauto, per la vicinanza geografica e storica con la Cina.
Le cause di questa deriva sono molteplici. Al primo posto troviamo il mutuo soccorso che l’autocrazia cinese fornisce ai regimi confratelli. Anche la geografia gioca un ruolo cruciale: Paesi come Laos e Myanmar, confinanti con la Cina, sono attratti dalla sua gravità economica e politica.
Il Laos, ad esempio, dipende dai prestiti cinesi per le dighe sul Mekong, che rappresentano metà del suo debito estero. La politica interna amplifica questa tendenza: regimi autoritari come quello cambogiano dell’autocrate Hun Sen e del figlio Hun Manet, criticati dagli Stati Uniti per violazioni dei diritti umani, trovano in Pechino un alleato che offre investimenti senza chiedere riforme democratiche.
L’economia, poi, è il vero ago della bilancia. La Cina è il principale partner commerciale dell’ASEAN, e la sua Belt and Road Initiative ha riversato miliardi in infrastrutture, legando i destini di molti Paesi alla sua orbita.
Gli Stati Uniti, al contrario, sembrano perdere terreno. Le dichiarazioni di figure come il primo ministro di Singapore Lawrence Wong, che nel 2025 ha descritto un mondo “più frammentato e disordinato” senza la leadership americana, riflettono un’ansia diffusa. La percezione che gli Stati Uniti si stiano ritirando, sia militarmente che economicamente, spinge i Paesi ASEAN verso la Cina, nonostante le riserve sul suo esercizio del potere. Un sondaggio del 2024 dell’ISEAS-Yusof Ishak Institute rivela che, mentre la Cina è vista come la potenza dominante, gode di poca fiducia rispetto a Giappone, Stati Uniti e Unione Europea.
La deriva verso la Cina non è irreversibile, ma il tempo stringe. Paesi come le Filippine oscillano tra le superpotenze, influenzati dai cambi di leadership, mentre Indonesia e Malesia, spinte dalla rabbia per il supporto americano a Israele, si allontanano da Washington.
L’Asia sudorientale, un tempo crocevia di opportunità, è dunque già un campo di battaglia geopolitico, dove la scelta non è più una possibilità, ma una necessità ineludibile. Gli Stati Uniti, se non invertiranno il loro disimpegno, potrebbero cedere definitivamente la regione a Pechino, lasciando il futuro dell’Asia in balia di un gigante che non ha ancora conquistato la fiducia dei suoi vicini.
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