Dal 2007 Hamas controlla la Striscia di Gaza. Seppure in una condizione di assoluta e riconosciuta anormalità, segregata all’interno di uno spazio controllato da Israele, Hamas diventa il potere a Gaza: l’amministrazione, la burocrazia, la riscossione delle tasse, i servizi sociali e municipali, il monopolio dell’uso della forza. Diviene, nel corso degli anni, il regime. Ed è per questo che le domande da porsi, nell’analisi storico-politica di Hamas, riguardano gli equilibri interni e la tenuta del suo consenso popolare. Piegata dagli arresti di migliaia di militanti in Cisgiordania, non solo da parte degli israeliani, ma soprattutto da parte delle forze di sicurezza dell’ANP di Abu Mazen, Hamas ha sempre più concentrato a Gaza la sua roccaforte.
Ma Hamas non è solo nella Striscia. È presente in quattro “circoscrizioni” dove ha i suoi quadri e sulle quali si fonda il suo consenso popolare. Se, dunque, la leadership presente nella Striscia è fondamentale per gli equilibri interni al movimento islamista e quella all’estero per le trattative con gli attori internazionali, la questione reale è la sua tenuta, dal punto di vista del rapporto con la popolazione. Vi sono due ipotesi, che sembrano divergenti solo a una lettura superficiale.
La prima è che Hamas si sia indebolita, perché una parte della popolazione – non solo di Gaza – la considera parzialmente responsabile del disastro umanitario. La seconda, che Hamas si sia al contrario rafforzata perché nell’immaginario arabo i risultati delle guerre su Gaza sono stati, almeno sino alla vigilia del 7 ottobre 2023, a favore di Hamas. Perché Hamas ha continuato a rappresentare, per una parte dei palestinesi, soprattutto quelli fuori da Gaza, un modello alternativo non tanto a Fatah, quanto all’ANP, un modello di muqawwama, di resistenza contro l’occupazione in un territorio – come quello cisgiordano – sempre più frammentato dalla presenza militare israeliana, dalla rete viaria e infrastrutturale che ha sistematizzato l’apartheid, e dalle centinaia di migliaia di coloni.
Dopo il 2007
È comunque un fatto che negli equilibri interni al movimento islamista Gaza ha rappresentato, dal 2007 in poi, una componente sempre più rilevante. La più rilevante in quanto unico spazio in cui Hamas ha esercitato il potere, assumendo dunque la centralità dal punto di vista territoriale. Eppure, con il passare del tempo, il totale controllo politico e militare di Hamas sulla Striscia l’aveva allontanata dalla popolazione, già profondamente stanca dell’isolamento, della morsa di Israele e della divisione tra i due governi palestinesi. La domanda, più forte di prima, era: Hamas stava “servendo il popolo”, come aveva sostenuto per decenni, oppure stava iniziando a “servire sé stesso”? Questo è il tipo di accusa che si stava diffondendo tra la gente: l’affermazione che Hamas fosse diventata come Fatah. Sebbene sia troppo semplicistico equiparare l’esperienza dei due partiti, il potere aveva cambiato Hamas, come aveva cambiato Fatah durante i primi dodici anni dell’ANP.
Non si può, però, separare la storia di Hamas dalla più ampia transizione della politica palestinese dall’era pre-Arafat a quella post-Arafat. Il mondo della Palestina post-Arafat e delle nuove élites, diverse da quelle che avevano amministrato il processo di Oslo, è in una prima fase una Palestina focalizzata su un orizzonte nazionale e territoriale: la Palestina all’interno della Linea verde – in altre parole, comprendente la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est –, come evidenziato dalla richiesta avanzata dall’OLP alle Nazioni Unite nel settembre 2011 di riconoscere lo Stato di Palestina. Questo orientamento nazionale potrebbe sembrare in contrasto con la struttura di Hamas e la sua leadership all’estero, profondamente legata al mondo dei rifugiati fuggiti nel 1948 e nel 1967. Eppure, anche questa leadership oltreconfine basa la sua prospettiva nazionale sulla Palestina ritagliata dall’ANP. Non è un caso che la leadership di Hamas abbia spesso ribadito di accettare nei fatti uno Stato palestinese sui confini del 1967, con Gerusalemme capitale e con il diritto al ritorno dei rifugiati. Sheikh Yassin l’aveva proposto nella sua hudna a lungo termine del 1997; il governo di Hamas l’aveva proposto nel 2006; Khaled Meshaal l’aveva proposto più volte nel blitz mediatico del 2010. Accettare uno Stato palestinese sui confini del 1967 significava, per Hamas, restringere lo “spazio” prescritto dal Mithaq, come peraltro avrebbe messo nero su bianco nel nuovo Documento discusso, votato dalle circoscrizioni e poi reso pubblico proprio dallo stesso Meshaal nel 2017.
Unirsi all’OLP
Non significava accettare Israele, ma significava per Hamas concentrarsi su un obiettivo considerato prioritario: unirsi all’OLP come attore politico e ottenere così una legittimità nazionale totale e indiscutibile. È questa politica che ha caratterizzato molta parte del percorso di Hamas attraverso la sua leadership all’estero, soprattutto durante i negoziati di riconciliazione guidati dall’Egitto nel 2009 e nel 2010 e raggiunti dopo la caduta del regime di Mubarak con l’accordo del 4 maggio 2011 al Cairo tra tutte le fazioni palestinesi. Dal punto di vista politico, la questione centrale del processo di riconciliazione non era la sicurezza. Si trattava invece della riforma dell’OLP e della successiva ammissione di Hamas come membro a pieno titolo dell’OLP, l’unica istituzione palestinese considerata fonte di legittimità, anche tra i rifugiati che sono così vitali per il sostegno di Hamas. L’importanza che Hamas attribuiva alla sua ammissione all’Organizzazione per la liberazione della Palestina non minava la sua lotta per il potere all’interno dell’ANP. Al contrario, l’ammissione nell’OLP avrebbe dato al ruolo di Hamas all’interno dell’ANP la legittimità nazionale di cui aveva bisogno.
L’estrema debolezza di un quadro politico palestinese spaccato, la frammentazione del Territorio palestinese e il processo infinito di riconciliazione tra Fatah e Hamas modificano profondamente, nel corso degli anni, la stessa prospettiva nazionale. La soluzione dei due Stati è ormai impraticabile da anni, per i fatti sul terreno compiuti dai coloni e dal governo israeliano. Fa parte solo della retorica ipocrita della comunità internazionale. Emerge, dall’interno della società palestinese, tutto il disagio verso una entità istituzionale – l’ANP – che non controlla più né il territorio né le istanze nazionali e di cittadinanza. A farne le spese sono le stesse fazioni tradizionali, comprese Fatah e Hamas, e si assiste alla comparsa di gruppi armati locali, composti dalle generazioni più giovani, concentrati nella parte settentrionale della Cisgiordania, tra Jenin e Nablus, nell’area dove sono più numerose le colonie radicali israeliane.
In parallelo, la questione israelo-palestinese diviene sempre più periferica per la comunità internazionale che, soprattutto nelle cancellerie occidentali, si trova sguarnita di fronte alle ondate di rivoluzioni e rivolte nei diversi Paesi arabi, la prima del 2011 e la successiva del 2019. Il focus si sposta sull’Egitto, che dopo la caduta di Hosni Mubarak vede l’ascesa dei Fratelli musulmani alla presidenza, subito travolti dalla controrivoluzione di Abdel Fattah al Sisi. La guerra civile (e guerra per procura) in Siria sposta poi definitivamente l’asse, portandolo lontano dalla questione israelo-palestinese anche a causa delle frizioni tra i Paesi del Golfo, Arabia Saudita e Qatar in testa, e alla tragedia della guerra in Yemen con il coinvolgimento armato saudita ed emiratino. La questione israelo-palestinese viene riposta in un cassetto perché percepita, da tutti gli attori regionali e internazionali, come un eterno conflitto a bassa intensità, una percezione fondata su una conoscenza così parziale e insufficiente della situazione sul terreno da aver creato le condizioni per il disastro del 2023.
Lo stesso Accordo del secolo (Accordi di Abramo) che rinsalda il rapporto tra la presidenza di Donald Trump e Benjamin Netanyahu chiude definitivamente a qualsiasi speranza di istituzione di un reale Stato di Palestina, da sempre peraltro osteggiato dal leader likudista. Da quel momento in poi, i palestinesi scompaiono da qualsiasi negoziato per una soluzione dei due Stati. Gli Accordi di Abramo tra Israele e alcuni Paesi arabi (Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco, Sudan) parlano di normalizzazione, non prevedono uno Stato palestinese, né la presenza dei palestinesi al tavolo anche quando si parla del loro destino.
Palestina dimenticata
Gli Accordi di Abramo rendono il quadro definitivamente chiaro. Nessuno Stato di Palestina, nessuna ricomposizione della frattura inter-palestinese. È nello stesso periodo che da Gaza emerge il movimento della Grande marcia del Ritorno del 2018 verso i confini della Striscia, con una spinta dal basso che Hamas non ispira né guida, semmai cavalca. Un tentativo pacifico non solo di rompere l’assedio israeliano attorno a Gaza, ma anche di indicare che i paradigmi del Medio Oriente stavano già cambiando, dopo che la speranza di un riconoscimento statuale per i palestinesi si era definitivamente rotta. Il sangue scorre anche allora dentro i confini sigillati di Gaza, persino in diretta internazionale, mentre Trump e Netanyahu inaugurano l’ambasciata statunitense a Gerusalemme.
Sempre più periferica la questione israelo-palestinese, ma per nulla risolta. E dentro Hamas cresce il peso dell’ala militare, che significa ala militare dentro Gaza. Le Brigate al Qassam non solo gestiscono il territorio, ma fanno sentire la loro influenza anche nelle elezioni per il rinnovo della dirigenza di Hamas. La figura di Yahya Sinwar sale ai vertici. Era rientrato a Gaza grazie all’accordo per la liberazione di Gilad Shalit, raggiunto dall’allora premier Netanyahu e Hamas con la mediazione dei servizi segreti tedeschi: 1027 prigionieri palestinesi in cambio della liberazione di Shalit. Yahya Sinwar era stato uno dei fondatori nei primi anni del movimento di al Majd, l’unità speciale costituita da sheikh Ahmed Yassin per individuare e punire i collaboratori con Israele, ed era conosciuto come uno dei più famosi comandanti delle Brigate al Qassam. Arrestato nel 1988 con una condanna all’ergastolo, era alla guida della constituency delle prigioni come il più importante esponente di Hamas. Sinwar era stato anche importante per quel documento dei prigionieri, un tentativo di conciliazione della scena politica palestinese che era durato lo spazio di un mattino. Un personaggio complesso, dunque, tra il suo legame con l’ala militare e il pragmatismo molto apprezzato dai mediatori egiziani.
Il dialogo fallito
Il regime, dunque, si barcamena tra l’amministrazione “ordinaria” della Striscia, uno spazio straordinario, desolato e rinchiuso, e il confronto armato con Israele. Le operazioni militari israeliane, così come le incursioni più limitate, si susseguono su Gaza, con caccia e droni, e la presenza della marina militare che controlla il mare. E le fazioni armate utilizzano razzi sempre più precisi contro le città israeliane. Gaza è esclusa da un qualsiasi futuro che veda anche solo il simulacro di uno Stato palestinese: è una macchia indistinta sulla cartina del Medio Oriente. E a rendere ancora più isolato Hamas nel 2023 è la notizia di pubblico dominio che Israele e Arabia Saudita stanno trattando la normalizzazione dei loro rapporti: per Hamas è un rischio, dopo il miglioramento delle relazioni con Riyadh, ottenuto da poco tempo, che aveva chiuso una stagione difficile anche per gli esponenti di Hamas nel regno, arrestati e tenuti in carcere per anni.
Di tanto in tanto, attraverso i mediatori egiziani sempre presenti in tutti i negoziati con i palestinesi, si affaccia l’ipotesi di una tregua a lungo termine con Israele, una pausa che non è una pace. Niente di concreto, e nello stesso tempo il segno che la situazione potrebbe scoppiare da un momento all’altro. Negli ultimi mesi prima del 7 ottobre 2023, si ripropone anche la questione della vivibilità di Gaza oltre la sussistenza e la sopravvivenza, la miseria e la disperazione, attraverso l’ipotesi singolare di un porto palestinese vicino a quello di al Arish, nel Sinai. Al porto si aggiungono le riflessioni sulle riserve di gas naturale di fronte alle coste di Gaza, il cui sfruttamento avrebbe potuto rappresentare per i palestinesi (della Striscia e della Cisgiordania) l’araba fenice dell’apertura e dello sviluppo economico. Tutto, però, rimane un esercizio intellettuale, niente più di questo.
Oltre gli abboccamenti con gli egiziani, per Hamas le questioni fondamentali sono altre. Anzitutto, rompere l’accerchiamento e ritornare nell’arena nazionale palestinese. E per farlo, occorre avere temi nazionali che vadano oltre l’amministrazione della prigione in cui due milioni e 200mila palestinesi sono de facto rinchiusi. Gerusalemme, l’icona dell’unità dei palestinesi, diventa la bandiera, assieme alla difesa (a distanza) dei palestinesi in Cisgiordania e, in particolare, dei prigionieri. Dopo la liberazione di oltre mille detenuti in cambio del ritorno a casa di Gilad Shalit, infatti, il dossier dei prigionieri diviene per Hamas ancora più importante, come è per tutta la società palestinese. Da sempre. È allo stesso tempo il collante e la calamita per il consenso. Un negoziato era in corso da anni tra Israele e Hamas per un secondo scambio di prigionieri, ma si era impantanato, e le minacce – anche pubbliche – da parte di Sinwar erano il segno che qualcosa poteva succedere. È successo. Il 7 ottobre 2023.
(1 – continua)
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