I NUMERI/ Ecco come guerre commerciali e lockdown muovono i traffici via mare

- Jack Cambiaso

La situazione del mercato marittimo in questo inizio del nuovo anno vede primeggiare il trasporto dei containers

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Cari lettori,

ben ritrovati per un nuovo appuntamento su queste pagine con il mercato marittimo altrimenti detto “shipping”. Avete presente come le nostre vite siano state capovolte dal Covid rispetto a un anno fa? Guardando i traffici marittimi troviamo una situazione simile, anche se va detto che nello shipping questa circostanza capiti molto più spesso. Le cause possono risultare cicliche come con l’andamento economico generale, a cui i mercati marittimi sono strettamente legati.

In altri casi dipendono da elementi più soggettivi, ovvero semplici fenomeni passeggeri che influenzano quel determinato mercato. In aggiunta non mancano casi in cui entrambi gli elementi si combinano tra loro, attutendone o amplificandone le conseguenze.

Per spiegarci meglio riprenderemo da dove ci eravamo lasciati all’inizio dell’anno, ovvero la situazione sui tre principali mercati di navi merci: carico secco, cisterne e contenitori. Oltre ad analizzare il loro stato attuale faremo un confronto con la loro situazione di un anno fa per darvi un’idea del capovolgimento e delle ragioni che lo hanno determinato.

Partiamo dal drybulk, il mercato del secco alla rinfusa, quello che riguarda tutte le materie prime non liquide. La seconda metà del 2020 ha visto una corsa dei prezzi per la maggioranza delle materie prime. Molti analisti vedevano all’orizzonte un potenziale super ciclo rialzista sempre più probabile come ben testimoniato, per esempio, dal prezzo del rame che a dicembre aveva toccato il massimo da 7 anni. Questi rincari potrebbero risultare un po’ paradossali per chi segue da vicino l’andamento dell’economia globale visto il crollo della crescita, per non dire profondità della recessione se si parla dei Paesi più sviluppati, a causa dell’emergenza pandemica e delle conseguenti restrizioni draconiane che tutt’ora soffocano le nostre esistenze. Quello che vi possiamo riportare con certezza è il grande beneficio che ne sta traendo il mercato del carico secco. Anzi, addirittura quello che a livello stagionale risulta quasi sempre il peggior momento dell’anno per l’indice di riferimento di questo mercato, il Baltic Dry Index (BDI), ha visto un primo trimestre partire completamente controtendenza.

Non ci sono dubbi che un’analisi superficiale della combinazione di questi due fattori potrebbe portare un osservatore esterno alla facile conclusione che siamo alle prese con una ruggente ripresa dell’economia mondiale. Infatti, quali segnali più incoraggianti di una cavalcata dei prezzi di materie prime unita a un mercato dei noli forte? In realtà forse le cose non stanno esattamente così e vediamo nel dettaglio perché forse si debbano contenere gli entusiasmi.

Premessa, in passato avevamo visto che il principale acquirente di materie prime al mondo, il vero motore del traffico globale da minimo due decenni, fosse senza dubbio la Cina in particolare e l’Asia in generale. Altrettanto noto che da quelle parti la pandemia abbia impattato male solo all’inizio dell’emergenza e che in seguito l’abuso di misure estreme come i lockdown sia stato quasi inesistente. A parte il tragicomico, grottesco e impietoso confronto tra i risultati sanitari dei Paesi asiatici rispetto a quelli occidentali, che inspiegabilmente vengono totalmente ignorati dai nostri lungimiranti governi e dai loro illustri esperti, una logica conseguenza di questo ben più ragionevole approccio al problema Covid ha ovviamente sortito i suoi effetti anche a livello economico. Infatti, la filiera produttiva asiatica, dopo l’iniziale battuta d’arresto, si è rimessa in moto a livelli quasi pre-pandemici. Questo sicuramente ha limitato i danni alle loro economie, decisamente più contenuti rispetto a quelli del saggio Vecchio continente.

Altrettanto vero che, seppur più moderatamente, anche da quelle parti i vari Pil nazionali si siano contratti. Difficile quindi giustificare la corsa dei prezzi solo in base a questa maggior normalità messa in campo dal pragmatico Oriente. La vera spinta probabilmente viene dal generico danno alla cosiddetta “supply chain”, la catena di approvvigionamento globale, derivante da rallentamenti e interruzioni di estrazione e produzione diffusi nel resto del mondo.

Esaminando più nel dettaglio la situazione dei traffici drybulk direi che la corsa dei noli nasconde ulteriori ragioni che potrebbero strappare un sorriso a chi ha seguito la prevalente narrativa degli ultimi anni. Avete presente cose tipo la green economy e danni derivanti da presunte guerre commerciali? Infatti, tra gli elementi più rilevanti di questa corsa dei noli spunta proprio una nuova guerra commerciale, quella tra Australia e Cina. Esplosa a settembre, inizialmente i suoi effetti si sono rivelati negativi, ma nel medio termine hanno fatto partire una corsa all’approvvigionamento alternativo da parte dei cinesi, questa volta loro nei panni dei protezionisti che accusano di dumping il loro fornitore principale. Strano che non siano piovute le moralistiche critiche liberiste che venivano riservate a Trump, soprattutto considerando le meno nobili ragioni che avrebbero mosso il Dragone. Infatti, le ritorsioni sono dipese dalla mancata concessione per la realizzazione del G5 in suolo australiano oltre che per la sgradita apertura di un’inchiesta sulle origini del Covid.

Tornando ai traffici, le importazioni alternative ci sono, ma spesso risultano meno convenienti soprattutto per via delle distanze maggiori. Come abbiamo già spiegato in passato, più si allungano le tratte e meno navi disponibili ci saranno, visto che passano più tempo per mare, con i logici benefici che ne conseguono sul rincaro dei noli. Già qui concorderete che sia abbastanza ironico, una guerra commerciale apparentemente salutare che vede la Cina nei panni del carnefice. In realtà, questa ripicca nei confronti degli australiani dovrebbe risultare sconveniente per i punitori e sicuramente sortisce prevedibili effetti inflattivi generali sui prezzi delle materie prime oltre che dei loro costi di trasporto. Ma le sorprese divertenti non finiscono qui! Visto l’ormai onnipresente tormentone mediatico e politico della green economy causa riscaldamento climatico, un altro elemento che contribuisce alla buona salute dei noli è proprio uno degli inverni più rigidi da un decennio a questa parte.

La combinazione di questi due fattori, guerra commerciale e clima “freddo”, di quale materia prima va a produrre un eclatante rincaro sul listino prezzi? L’ormai obosleto perché inquinante carbone! Ebbene sì, a cavalcare è il nemico numero uno delle famose emissioni contro cui tutto l’Occidente è ormai ben avviato in una sanguinosa crociata dai sempre più dubbi risvolti positivi eccetto per chi potrà specularci con vari investimenti verdi, si spera produttivi oltre che infarciti di nobili propositi, tipo quelli centrali di un certo Recovery fund. Ecco signori, il cocktail della realtà opposta alla narrativa è servito, il BDI intanto ringrazia e passa all’incasso.

Forse non ricordate o magari non l’avevate letto, ma esattamente un anno fa proprio su queste pagine vi raccontavamo dello stesso mercato, prima che la pandemia esplodesse, messo in ginocchio proprio dalle nuove norme green entrate in vigore dal primo gennaio 2020. Dubito che gli armatori di bulk carriers un anno fa avrebbero scommesso su una salvezza servita da un’emergenza pandemica, dal presunto spacciato, quanto vituperato, carbone e dalla ribellione del clima verso la retorica green della mitica Greta Thunberg. Le vie del Signore sono infinite e quelle via mare, a quanto pare, non fanno eccezione.

Ora diamo uno sguardo alle altre navi merci per eccellenza, quelle del trasporto liquido, le petroliere altrimenti dette tankers. Qui faremo un percorso inverso partendo da come se la passavano un anno fa. Sulle nostre pagine avevamo dedicato uno spazio anche a questo mercato che controtendenza sfidava la logica propostaci da un contesto difficile tra green economy, un’altra sanguinosa guerra commerciale e ovviamente la pandemia. L’anno scorso era iniziato bene per le cisterne, ironia della sorte aiutate proprio dall’entrata in vigore della già citata normativa “green” che prevedeva l’obbligo per le navi di usare un nuovo carburante più pulito la cui produzione per paradosso aveva rinvigorito proprio i traffici petroliferi. Poi era sopraggiunta la pandemia che aveva portato inevitabilmente a una depressione del barile, scatenando una corsa all’approvvigionamento a buon mercato. Infine, era esplosa una guerra dei prezzi tra sauditi e resto del mondo che aveva messo in moto il contango con un susseguirsi di noli da record per il comparto cisterniero.

Sfortunatamente per questo settore poi è cominciato un declino inesorabile a causa del collasso del turismo e della mobilità soggetta inesorabilmente a restrizioni varie. Impensabile una ripresa del settore finché non ci sarà una concreta ripresa dei consumi. Qualcuno ora potrebbe chiedersi se il recente rincaro del barile tornato a livelli pre-pandemici intorno ai 60 dollari non sia un dato che annuncia l’imminente ripresa sia del settore che dell’economia in generale. In realtà, anche in questo caso il rincaro è stato ottenuto soltanto “tagliando la produzione”. Infatti, i benefici sono stati inversamente proporzionali per il comparto che oltre alla domanda asfittica ha solo visto un crollo parallelo pure dell’offerta. Insomma, per le navi cisterna piove sul bagnato e un’eventuale sperata ripresa sembra per il momento rimandata.

Infine, un cenno alle containers dove non ci dilungheremo troppo, ma solo confermando quanto già detto i primi dell’anno, questo settore è senza dubbio il grande vincitore del momento. La corsa al rialzo dei noli sembra inarrestabile e ha raggiunto livelli che non si vedevano da quasi un decennio. D’altra parte vanno di pari passo con il boom dell’e-commerce e soprattutto della profonda recessione del settore servizi visto che quello che non spendiamo più in viaggi e serate fuori con gli amici finisce per essere speso facendo shopping su internet. Chissà, forse anche questo si colloca bene nel Recovery fund alla voce digitalizzazione? Con buona pace di chi ne farà le spese ovviamente, la cura Draghi parla chiaro, il sostegno deve andare a chi un futuro già ce l’ha, il resto va solo accompagnato alla chiusura.

Concludo richiamando una recente citazione del nostro nuovo primo ministro. Qualcuno forse ricorderà quando parlò del debito “buono” e di quello “cattivo”. Penso che si possa distinguere nello stesso modo anche l’inflazione, quella che alcuni temono stia per bussare alla porta. Attenzione però, perché quella che rischia di arrivare dai rincari di certi prezzi e costi che abbiamo esaminato in questo articolo personalmente temo che sarà cattiva e, contrariamente a quello che scommetto ci racconteranno, per una volta non sarà colpa delle Banche centrali.

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