I salari reali hanno ripreso a salire nel 2023, ma hanno molto terreno da recuperare. L'occupazione, intanto, continua a crescere

Le ultime rilevazioni dell’Istat presentano dei dati apparentemente contraddittori, soprattutto per come vengono trattati dai media, con una particolare sollecitudine a sottolineare gli aspetti critici anziché i faticosi tentativi di risalita. Il recente Rapporto dell’Oil sui salari ha certificato, ad esempio, che, per quanto riguarda l’Italia l’impatto della crisi del costo della vita è risultato particolarmente evidente. I salari reali sono rimasti relativamente stabili per poi diminuire rapidamente a partire dalla metà del 2021.



Il calo significativo dei salari reali e la concentrazione dei lavoratori con bassi salari in famiglie a basso reddito – maggiormente esposte a un’inflazione superiore a quella registrata dall’indice dei prezzi al consumo (IPC generale) – indicano come anche in Italia i lavoratori a basso reddito abbiano subito una perdita significativa in termini di salari reali tra la metà del 2021 e il 2022. Questa decrescita è proseguita sino alla fine del 2022, dopodiché i salari reali hanno ripreso a crescere, pur restando al di sotto dei livelli dell’inizio del 2015.



A questo punto potrebbe proseguire l’Istat con i dati, di recente pubblicazione, relativi ai redditi delle famiglie residenti in Italia (è importante sottolineare l’aspetto della residenza perché consente di includere anche famiglie di nazionalità straniera che risiedono nel nostro Paese). L’inflazione – soprattutto al momento del suo picco – ha pesato sul reddito reale delle famiglie come sui salari e le retribuzioni.

Nel 2023, l’Istat stima che le famiglie residenti in Italia abbiano percepito un reddito netto pari in media a 37.511 euro, circa 3.125 euro al mese. La crescita dei redditi familiari in termini nominali (+4,2% rispetto al 2022) non ha però tenuto il passo con l’inflazione osservata nel corso del 2023 (+5,9% la variazione media annua dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo, Ipca), determinando un calo dei redditi delle famiglie in termini reali (-1,6%) per il secondo anno consecutivo.



La diminuzione dei redditi in termini reali è particolarmente intensa nel Nord-est (-4,6%) e nel Centro (-2,7%), a fronte di una lieve riduzione osservata nel Mezzogiorno (-0,6%) e di una debole crescita nel Nord-ovest (+0,6%). Rispetto al 2007, la contrazione complessiva dei redditi familiari in termini reali è pari, in media, a -8,7% (-13,2% nel Centro, -11,0% nel Mezzogiorno, -7,3% nel Nord-est e -4,4% nel Nord-ovest).

Inoltre, la flessione dei redditi è stata particolarmente intensa per le famiglie la cui fonte di reddito principale è il lavoro autonomo (-17,5%) o dipendente (-11,0%), mentre per le famiglie il cui reddito è costituito principalmente da pensioni e trasferimenti pubblici si registra un incremento pari al 5,5%.

È opportuno prendere nota di questo dato per smentire la versione pauperistica riguardante la condizione dei pensionati, l’unica categoria che gode – sia pure con tanti limiti – di un sistema di rivalutazione automatica dei trattamenti rispetto all’inflazione.

Poiché la distribuzione dei redditi è asimmetrica – aggiunge l’Istat – la maggioranza delle famiglie ha percepito un reddito inferiore all’importo medio. Calcolando il valore mediano, ovvero il livello di reddito che divide il numero di famiglie in due parti uguali, si osserva che il 50% delle famiglie residenti in Italia ha un reddito non superiore a 30.039 euro (2.503 euro al mese), con una crescita del 4% in termini nominali rispetto al 2022 (28.865 euro, 2.405 euro mensili). Nel 2023, l’ammontare di reddito percepito dalle famiglie più abbienti è 5,5 volte quello percepito dalle famiglie più povere (in aumento dal 5,3 del 2022).

Le famiglie del Nord-est dispongono del reddito mediano più elevato (34.772 euro), seguite da quelle del Nord-ovest (il livello mediano è inferiore del 5% a quello del Nord-est), del Centro (-8%) e del Mezzogiorno (-28%). Il reddito mediano varia in misura significativa anche in base alla tipologia familiare: le coppie con figli raggiungono i valori più alti con 46.786 euro (circa 3.900 euro al mese), trattandosi nella maggior parte dei casi di famiglie con due o più percettori, ma le coppie con tre o più figli percepiscono un reddito mediano (44.993 euro) più basso sia di quello osservato per le coppie con due figli (48.084 euro), sia di quello osservato per le coppie con un solo figlio (45.523 euro).

Le famiglie monogenitoriali presentano un reddito mediano di 31.451 euro e gli anziani che vivono soli nel 50% dei casi non superano la soglia di 17.681 euro (1.473 euro mensili). Le coppie senza figli percepiscono un reddito mediano decisamente più basso se la persona di riferimento è anziana (31.975 contro 40.447 euro delle coppie senza figli più giovani). Il livello di reddito mediano delle famiglie con stranieri – è bene prenderne nota – è inferiore di 5.400 euro a quello delle famiglie composte solo da italiani. Le differenze relative si accentuano passando dal Nord al Mezzogiorno, dove il reddito mediano delle famiglie con almeno uno straniero è pari al 62% di quello delle famiglie di soli italiani.

Lo stato dei redditi si riflette anche sulle condizioni delle famiglie a rischio di povertà. Nel 2024, secondo l’Istat, il 23,1% della popolazione è a rischio di povertà o esclusione sociale (nel 2023 era il 22,8%), si trova cioè in almeno una delle tre seguenti condizioni: a rischio di povertà, in grave deprivazione materiale e sociale oppure a bassa intensità di lavoro.

La quota di individui a rischio di povertà si attesta sullo stesso valore del 2023 (18,9%) e anche quella di chi è in condizione di grave deprivazione materiale e sociale rimane quasi invariata (4,6% rispetto al 4,7%); si osserva un lieve aumento della percentuale di individui che vivono in famiglie a bassa intensità di lavoro (9,2% e 8,9% nell’anno precedente).

Nello specifico, sono considerati a rischio di povertà gli individui che vivono in famiglie il cui reddito netto equivalente dell’anno precedente (senza componenti figurative o in natura) è inferiore al 60% di quello mediano. Nel 2024, risulta a rischio di povertà il 18,9% (lo stesso valore registrato nel 2023) delle persone residenti in Italia (vivono in famiglie con un reddito netto equivalente inferiore a 12.363 euro), per un totale di circa 11 milioni di individui.

Sostanzialmente stabile e pari al 4,6% (era 4,7% nel 2023) risulta la quota di popolazione in condizioni di grave deprivazione materiale e sociale (oltre 2 milioni e 710mila individui), la quota cioè di coloro che, nel 2024, presentano almeno 7 segnali di deprivazione dei 13 individuati dal nuovo indicatore Europa 2030; si tratta di segnali riferiti alla presenza di difficoltà economiche tali da non poter affrontare spese impreviste, non potersi permettere un pasto adeguato o essere in arretrato con l’affitto o il mutuo, ecc.

Gli individui che nel 2024 vivono in famiglie a bassa intensità di lavoro (cioè con componenti tra i 18 e i 64 anni che nel corso del 2023 hanno lavorato meno di un quinto del tempo) sono il 9,2% (erano l’8,9% nel 2023), ammontando a circa 3 milioni e 873mila persone. La quota di individui in famiglie a bassa intensità di lavoro aumenta, tra il 2023 e il 2024, tra le persone sole con meno di 35 anni (15,9% rispetto al 14,1% del 2023) e, soprattutto, tra i monogenitori, che presentano una percentuale più che doppia rispetto alla media nazionale (19,5% contro il 15,2% del 2023).

A livello territoriale, nel 2024, il Nord-est si conferma la ripartizione con la minore incidenza di rischio di povertà o esclusione sociale (11,2%, era 11,0% nel 2023) e il Mezzogiorno come l’area del Paese con la percentuale più alta (39,2%, era 39,0% nel 2023).

Nel 2024 l’incidenza del rischio di povertà o esclusione sociale si conferma essere più bassa per chi vive in coppia senza figli. Rispetto al 2023, l’indicatore aumenta per coloro che vivono in famiglie con cinque componenti e più (33,5% rispetto al 30,7% del 2023) e, soprattutto, per chi vive in coppia con almeno tre figli (34,8% rispetto a 32% del 2023).

La crescita si registra anche per i monogenitori (32,1% rispetto a 29,2%), per effetto della più diffusa condizione di bassa intensità di lavoro (legata anche a problemi di conciliazione). Per le coppie con uno o due figli, il rischio di povertà o esclusione sociale rimane contenuto (circa il 19%) e ben al di sotto della media nazionale (23,1%). Inoltre, nel 2024, il rischio di povertà o esclusione aumenta per gli anziani di 65 anni e più che vivono da soli (29,5% dal 27,2% del 2023).

Il rischio di povertà o esclusione sociale raggiunge il 33,1% (era il 31,6% nel 2023) tra coloro che possono contare principalmente sul reddito da pensioni e/o trasferimenti pubblici, diminuisce invece per coloro che vivono in famiglie in cui la fonte principale di reddito è il lavoro dipendente (14,8% dal 15,8% del 2023) e rimane stabile per chi ha come fonte principale un reddito da lavoro autonomo (22,7% e 22,3% nel 2023).

Infine, il rischio di povertà o esclusione sociale si riduce per gli individui in famiglie con almeno un cittadino straniero (37,5%, dal 40,1% dell’anno precedente) e aumenta leggermente per i componenti delle famiglie composte da soli italiani (21,2% rispetto al 20,7% del 2023).

I dati finora esposti concorrono con altri più positivi attinenti all’occupazione che dovrebbero produrre un miglioramento dei redditi familiari.

A febbraio 2025 il numero di occupati è salito a 24 milioni 332mila. La crescita rispetto al mese precedente coinvolge gli autonomi, che salgono a 5 milioni 170mila, e i dipendenti a termine (2 milioni 710mila), mentre sono sostanzialmente stabili i dipendenti permanenti (16 milioni 451mila).

L’occupazione aumenta anche rispetto a febbraio 2024 (+567mila occupati) come sintesi della crescita dei dipendenti permanenti (+538mila) e degli autonomi (+141mila) a fronte del calo dei dipendenti a termine (-112mila). Su base mensile, crescono il tasso di occupazione, al 63,0%, e quello di inattività, al 32,9%, mentre il tasso di disoccupazione diminuisce al 5,9%.

A febbraio 2025, rispetto al mese precedente, tra le donne il tasso di occupazione aumenta di 0,4 punti e calano quelli di disoccupazione e di inattività (-0,3 e -0,2 punti rispettivamente); tra gli uomini si registra un aumento del tasso di inattività (+0,4 punti) associato alla diminuzione di quelli di occupazione (-0,2 punti) e disoccupazione (-0,3 punti).

Su base annua, sia per gli uomini sia per le donne, si osserva la crescita del tasso di occupazione (+0,8 e +1,5 punti rispettivamente) e la diminuzione di quello di disoccupazione (-1,2 punti tra gli uomini e -1,6 punti tra le donne); il tasso di inattività, invece, cresce tra gli uomini (+0,1 punti) e cala tra le donne (-0,5 punti). È evidente una dinamica più vivace dei trend dell’occupazione femminile. La crescita congiunturale del numero di occupati, registrata a febbraio 2025, è il risultato dell’aumento dei dipendenti a termine (+0,3%) e degli autonomi (+0,7%) associato alla sostanziale stabilità dei dipendenti permanenti.

In termini tendenziali, l’occupazione cresce tra i dipendenti permanenti (+3,4%) e gli autonomi (+2,8%) a fronte del calo tra i dipendenti a termine (-4,0%).

Su base annua, l’occupazione cresce per tutte le classi d’età a eccezione dei 25-34enni che registrano un calo. La disoccupazione diminuisce in tutte le classi d’età e l’inattività, che aumenta tra i 15-49enni, scende tra chi ha almeno 50 anni. In sostanza – sia per gli uomini che per le donne – è in atto un processo di invecchiamento della forza lavoro che va considerato per il verso giusto.

Influiscono certamente su questo trend le regole riguardanti l’età pensionabile e la crisi dell’offerta che induce le aziende a trattenere più a lungo personale qualificato. Sono tuttavia prevalenti gli effetti degli andamenti demografici. Col passare del tempo vi è anche il passaggio automatico dei lavoratori a coorti più anziane, mentre quelle che seguono sono in numero inferiore per banali motivi demografici (nel senso che non sono nati in numero adeguato). Ne deriva che la fotografia del mercato del lavoro riguarda più o meno la stessa platea, ma che i soggetti hanno cambiato posizione e quindi sembrano in numero maggiore.

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