Alla Festa del Cinema di Roma è stato presentato il film "Il grande Boccia" di Karen Di Porto, dedicato a Tanio Boccia
Ogni Paese ha il suo Ed Wood, ovvero il proprio “peggior regista” nazionale che diventa di culto proprio per la sua mediocrità. In Italia però quel nome, quel regista non è divenuto culto, anzi è rimasto pressoché sconosciuto: nessuna rivalutazione critica, nessuna scoperta cinefila, se non il nome che girava per la pessima reputazione, ma poi quei film non li ha più visti nessuno. Quel nome è quello di Tanio Boccia al quale Karen Di Porto ha dedicato il film Il grande Boccia, presentato alla Festa del Cinema di Roma (e in sala nei prossimi mesi).
Il film Il grande Boccia non racconta tutta la vita e la carriera del regista, ma si concentra sulla sua impresa più folle, attraverso la quale racconta un’industria e un modo di pensare al cinema: ossia quando nel 1964, Boccia (Ricky Memphis) realizzò contemporaneamente quattro film diversi, usando gli stessi attori, riciclando scene e immagini, comprimendo i costi con l’idea di moltiplicare gli incassi, quattro peplum, per assecondare la moda del momento, prima di accorgersi che quel filone stava per tramontare e stavano per esplodere gli spaghetti Western.

Il film Il grande Boccia, scritto da Massimo Gaudioso e Andrea Tufo, ironicamente, comincia proprio con Boccia che anticipa Sergio Leone, copiando Kurosawa e ideando una versione peplum di Per un pugno di dollari, e ricostruisce uno dei punti più peculiari della serie B (ma anche C o D) nostrana, quel trionfo di cialtroneria, inventiva, amore per il pubblico e cinismo, condita da sana inettitudine, che riconosciamo un po’ indulgentemente come caratteristica tutta italiana.
Di Porto non ha a cuore la filologia, decide di mescolare il mito, l’aneddotica e il gusto del racconto costruendo il film Il grande Boccia quasi come fosse un Heist movie, un film di rapina e truffa, con la pianificazione, la scelta del gruppo, la sua messa in atto e le difficoltà da risolvere con colpi di genio estemporanei, presi proprio dai leggendari racconti di coloro che con Boccia lavorarono: uno su tutti, il carrello di 40 metri che il regista usò per girare quattro scene consecutive per quattro film diversi nel momento in cui stava per finire la pellicola a sua disposizione, con gli stessi attori che dovevano cambiarsi di abito senza mai dare lo stop alla camera.
Una specie di Soliti ignoti nel mondo dei cinematografari, che fa sorridere con le trovate di questo genio del riciclo (“Il cinema è solo questione di forbici”, dice a inizio film) e, proprio grazie alle scelte di scrittura e al tono della regia, oltre alla capacità di Di Porto di dirigere gli attori, riesce a entrare a entrare nello spirito di un uomo e di un mondo, senza l’idealismo di operazioni simili, ma restando coi piedi a terra, quelli di un uomo che mangiava in trattoria o sostava al parco per studiare il proprio pubblico.
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