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Home » Lavoro » INCUBO FASE 2/ Le misure del Governo non bastano a difendere lavoro e occupazione

  • Lavoro

INCUBO FASE 2/ Le misure del Governo non bastano a difendere lavoro e occupazione

Giuliano Cazzola
Pubblicato 28 Aprile 2020
lavoro_giovane_scaffale_lapresse

(LaPresse)

Dopo il lockdown alcune attività imprenditoriali potranno riprendere, ma ci sono dei lavoratori che rischiano di perdere il loro posto

I primi a reagire contro le misure annunciate dal premier Giuseppe Conte per la fase 2 sono stati i commercianti. Molto critico Carlo Sangalli, sempiterno presidente di Confcommercio: “La fase 2 rinvia la riapertura degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e di tante attività del turismo e dei servizi. Ogni giorno di chiusura in più produce danni gravissimi e mette a rischio imprese e lavoro – ha detto -; in queste condizioni diventa vitale il sostegno finanziario alle aziende con indennizzi a fondo perduto che per adesso non sono ancora stati decisi. Bisogna invece agire subito e in sicurezza per evitare il collasso economico di migliaia di imprese”. C’era da aspettarselo. I vincoli che continuano a permanere sulle attività economiche, la graduale riapertura delle stesse dopo ben 50 giorni di fermo (eccezion fatte per le deroghe previste) sollecitano la logica del “primum vivere”: la richiesta di “indennizzi a fondo perduto”. Si tratta di misure che è urgente assumere, ma la strada maestra è un’altra: accompagnare – con tutti i mezzi e gli strumenti necessari – le aziende a ripartire.


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Sappiamo benissimo che i contagi potrebbero ripartire; per questi motivi vanno predisposti tutti i possibili presidi di difesa (non dimentichiamo che non è ancora stato risolto in modo esaustivo il problema delle mascherine, neppure per sapere con certezza se sono utili e se è obbligatorio indossarle). Ma è ormai indispensabile un cambiamento di mentalità che ci porti a una valutazione più razionale del flagello che ci ha colpito. Non è consentito rifugiarsi all’interno di un’enorme Arca di Noè in attesa che tutto sia finito, perché quel momento non arriverà mai.


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Non possiamo dunque lasciare che l’economia vada in rovina, che si accartocci su se stessa; ne sarebbero colpiti non solo i diritti e la qualità di vita delle persone, ma sarebbero a rischio anche le istituzioni democratiche e la stabilità sociale. Non possiamo fingere di non vedere che ci siamo lasciati imporre, con una singolare convinzione, un regime di privazione delle libertà e dei diritti fondamentali che non ha precedenti nella storia dell’umanità, perché mai a un figlio è stato vietato di incontrare il proprio padre, che vive lontano da lui a una distanza superiore a 200 metri. Ci sono nei Dpcm (già di per sé atti di cui è dubbia la legittimità nel disporre in materia) preclusioni assurde, divieti irragionevoli, raccomandazioni bizzarre, a cui però la grande maggioranza dei cittadini si attiene con una disciplina quasi maniacale e una palese ostilità nei confronti degli “evasori”.


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Tutto ciò premesso, anche se gli istituti di ricerca raccomandano prudenza perché non siamo ancora in possesso di dati reali, sono state compiute e presentate diverse analisi della situazione dal punto di vista produttivo e occupazionale. Va da sé che vi è un legame molto stretto, dipendente dalla durata delle chiusure, tra il numero delle aziende in quarantena e quello degli occupati a rischio. Intanto – avverte l’Inapp in un Policy Brief di aprile – già l’occupazione era in frenata e il ricorso alla Cassa integrazione guadagni in forte crescita prima della emergenza sanitaria da Covid-19.


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Il numero delle persone occupate nel secondo semestre del 2019 aveva rallentato fortemente (+0,2%, da +0,5% nei precedenti sei mesi), per la riduzione della componente relativa agli autonomi e la frenata dell’occupazione a tempo indeterminato, a fronte della graduale espansione della componente a termine. Nei mesi iniziali dell’anno in corso, prima che l’emergenza sanitaria dilagasse, gli occupati erano diminuiti (-0,4% nel bimestre gennaio-febbraio rispetto al quarto trimestre del 2019), per effetto della caduta sia del numero dei dipendenti permanenti (-0,3%, per la prima volta dal terzo trimestre del 2018), sia degli autonomi. Ma è attendibile che il blocco di una quota significativa della base produttiva, disposto fino al 3 maggio (poi riaperta parzialmente), si rifletta in un’eccezionale riduzione delle ore lavorate nei mesi primaverili.


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Secondo stime dell’Istat, i provvedimenti di sospensione o riduzione dell’attività produttiva riguarderebbero il 51,3% delle imprese e il 42,9% degli addetti. Le imprese attuerebbero forme di riduzione dell’orario di lavoro sia attraverso lo smaltimento di ferie e di congedi parentali, sia, in maggior misura, mediante il ricorso alla Cassa integrazione guadagni (Cig), estesa dal decreto legge “Cura Italia” a tutte le imprese, indipendentemente dal settore produttivo e dal numero di addetti. Secondo le informazioni diffuse dall’Inps, le richieste per la Cig con causale “Covid-19” pervenute fino al 10 aprile – sostiene l’Inapp – riguardano circa 2,9 milioni di lavoratori, mentre le istanze relative all’assegno ordinario coinvolgono circa 1,7 milioni di beneficiari; nessuna informazione è disponibile sulle domande pervenute per la Cig in deroga con causale Covid-19 che in prima battuta sono raccolte dalle Regioni e poi inviate all’Inps. Si stima, in base alla struttura dell’occupazione nei comparti interessati dalla sospensione o riduzione dell’attività produttiva, che il numero complessivo di ore autorizzate possa attestarsi su livelli ampiamente superiori rispetto ai valori massimi storicamente osservati su base mensile dalla crisi finanziaria del 2009.


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Come allora, l’utilizzo della Cig consente alle imprese di preservare la base occupazionale e quindi il suo potenziale, in modo da disporre di un capitale sociale per la ripresa dell’attività quando i vincoli alla produzione saranno rimossi. Di particolare interesse l’analisi dell’Inapp secondo il carattere dell’occupazione. I dipendenti a tempo determinato coinvolti dalle misure di contenimento del contagio sono poco meno di 600 mila unità, occupati in prevalenza nel settore terziario (419 mila). I lavoratori a tempo determinato occupati in imprese che operano in settori per i quali è stata disposta la sospensione risultano più di altri a rischio di perdita del posto di lavoro. Inoltre, circa 225 mila dipendenti a termine interessati dalla restrizione sono occupati nel settore alberghiero e della ristorazione, dove il 92,9% delle imprese risulta sospeso e dove generalmente i rapporti di lavoro a termine hanno una durata estremamente ridotta.

È verosimile che, in presenza del fermo della attività, una quota non indifferente di contratti a termine non sia rinnovata. Ecco perché tra le misure con carattere d’urgenza dovrebbe essere inserita una deroga alla norma del c.d. decreto dignità che ha ridefinito i criteri della condizionalità per la proroga dei contratti a termine trascorsi i primi 12 mesi. È un vincolo che le imprese non possono permettersi in una fase come l’attuale; non è possibile pretendere che – nella travagliata prospettiva a cui va incontro l’economia -. le aziende si debbano porre il problema di trasformare in rapporto a tempo indeterminato un contratto a termine venuto a scadenza.

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