L’incremento annuale dei prezzi in Italia a marzo è stato del 7,7% in diminuzione rispetto al 9,1% del mese di febbraio. Il calo è sostanzialmente ascrivibile alla diminuzione della componente energetica che ha beneficiato dei cali del prezzo del petrolio e del gas degli ultimi mesi. Le notizie buone finiscono qua, perché l’inflazione di fondo, al netto dei beni energetici, è passata dal 6,4% di febbraio al 6,5% di marzo; i prezzi dei prodotti alimentari rimangono, esattamente come a febbraio, in aumento del 13,2% sul 2022.
Sono numeri che preoccupano per due motivi. Il primo è che l’inflazione generale scende grazie alla componente energetica che è volatile e soggetta a elementi che non dipendono solo da fattori economici. La componente geopolitica dell’equazione, per esempio, rimane un’incognita nei prossimi mesi. Il secondo è che il numero sintetico che finirà sui titoli è fuorviante. L’inflazione “vera” che arriva sui conti e sulla spesa degli italiani è ben più alta del 7,7%. I beni alimentari non sono comprimibili e rimane il sospetto che nemmeno questo 13,2% fotografato dall’Istat colga tutto l’impatto con gli italiani che tagliano e risparmiano ovunque sia possibile.
Da questa realtà parte la riflessione sulle prospettive economiche e di politica monetaria dei prossimi mesi. In questo momento la crescita del Pil è positiva, la disoccupazione è bassa e il mercato del lavoro favorisce l’incremento dei salari. L’impatto negativo dell’incremento dei prezzi e dei tassi di interesse viene sostenuto da una dinamica che è ancora fatta di crescita e dai risparmi accumulati nei due anni di politiche monetarie e fiscali espansive post-Covid. All’interno di questo quadro ci sono già molte famiglie che invece hanno subito tutto l’incremento dei prezzi.
La grande questione che si apre è cosa potrebbe succedere quando arriverà il rallentamento in un contesto di tassi alti e prezzi in salita. È possibile, a quel punto, che l’economia trovi un vuoto d’aria improvviso. Le banche centrali si troverebbero in una posizione molto complicata: se tengono la barra dritta sulla lotta all’inflazione affossano l’economia, se invece aprono i cordoni della borsa si pongono le basi per un’altra fiammata d’inflazione con i prezzi in aumento da livelli già molto alti. Le categorie di lavoratori meno qualificati o nei settori con meno domanda non riuscirebbero a recuperare potere d’acquisto con incrementi salariali. Già oggi si assiste al ritiro graduale delle politiche fiscali espansive con i Governi impegnati a ridurre il debito e l’inflazione.
La soluzione a questo problema esiste ed è fatta di energia conveniente e libertà di impresa che sono le due condizioni necessarie per aumentare la disponibilità di beni. Invece l’emergenza diventa l’occasione irresistibile per i Governi per guidare la crisi innanzitutto con politiche redistributive sempre più aggressive e “socialiste” e poi con strumenti di controllo sempre più pervasivi per gestire una scarsità strutturale apparentemente inspiegabile.
Il punto massimo di questi sviluppi è l’Unione europea. Tutti gli interventi “green” che si leggono sui giornali hanno un comun denominatore: mettere un limite strutturale alla domanda imponendo tasse e costi insostenibili e mettere in atto controlli per evitare che ci siano scappatoie. La domanda di case limitata dai costi delle ristrutturazioni per avere la classe B; la domanda di macchine limitata dai costi delle auto elettriche; la domanda di carne limitata dall’esplosione dei prezzi per la riduzione del bestiame che produce CO2.
Non volendo rinunciare al controllo e non essendoci una soluzione nel sistema che risolva il problema dell’offerta bisogna agire sulla domanda e redistribuire per evitare crisi sociali. Anzi. In questo scenario l’emergenza diventa irresistibile perché offre dividendi politici stellari. Il problema dell’offerta non si pone perché si uccide la domanda. Nel frattempo la pressione sociale sale.
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