Nella giornata del 12 dicembre verrà diffuso il dato tendenziale annuo dell’inflazione Usa riferito al mese di novembre. Nel presente intervento si stima un tasso del 3,1% con un intervallo al minimo del 3,0%; tutto questo dovuto alla permanenza media del prezzo del petrolio al barile Wti in un intervallo tra 77 e 83 dollari.
Per ora le traiettorie di prezzo sui mercati internazionali della materia prima in oggetto si sono un po’ acquetate, ma avendo in giro per il mondo due conflitti importanti, di cui uno proprio al centro del Medio Oriente, tutto ciò obbliga l’analisi a un percorso giorno per giorno, un po’ come guidare nella nebbia, con poche e scarse direzioni conclamate; siamo, insomma, in attesa di eventi epocali che hanno ricadute esogene sui prezzi di offerta e sulle quantità delle materie prime, nello specifico per ora gli idrocarburi, con l’eccellenza petrolio.
Tra le altre cose, sono proprio questi aspetti che fanno tenere alta l’attenzione della Fed su una politica monetaria restrittiva, cioè per ora nessun taglio segnalato di tassi di interesse, ma se servisse non sono esclusi ulteriori rialzi, e questo sempre in dipendenza della dinamica dell’inflazione.
Leggendo questo schema da un’altra angolazione, viene fuori cristallina una verità sempre sottaciuta, e cioè che la Fed non solo segue le dinamiche degli accadimenti, ma fa capire benissimo che non sono nel suo controllo, e ne abbiamo parlato già svariate volte; dinamiche internazionali dei fattori energetici e disavanzi federali.
In tali condizioni, l’altezza dei tassi di interesse e il suo prolungamento nel tempo hanno un effetto molto più importante, a mio parere, sulle aspettative degli operatori: si intende con ciò il comunicare ai mercati che il futuro è divenuto più incerto e pericoloso, e che quindi gli operatori economici debbono provvedere con più cautela, financo le famiglie nei loro progetti di spesa, tipo ad esempio l’edilizia.
Tutto ciò serve a rendere meno effervescente l’attività economica se guidata da sottostanti ancora fragili e soprattutto non facilmente gestibili, e cioè le tensioni internazionali; d’altra parte con tassi di interesse elevati e per più tempo, e con lo spauracchio di incrementi ulteriori, la Fed non solo comunica una difficoltà più stringente a ricorrere al credito bancario, ma anche per tale motivo a tenere conto che eventuali progetti di investimento debbano essere finanziati con gli attivi di Wall Street date le enormi quantità liquide ivi parcheggiate per tenere alti i valori azionari quotati; è evidente che l’uscita fuori di liquidità verso i mercati reali avrebbe perlomeno l’effetto consequenziale e diretto di sgonfiare le quotazioni di Wall Street, ricordando perciò per atro verso agli operatori che i tempi sono difficoltosi e in questo modo tale liquidità non impatterebbe in maniera sensibile sull’inflazione, perché quanto meno verrebbe subito fermata.
Siamo insomma in una tipica situazione di un cane che si morde la coda, in situazioni di tensioni ogni accorgimento ne crea delle proprie che si aggiungono alle precedenti, e quindi il problema è se le azioni pensate per fermare un fenomeno negativo come l’inflazione non siano troppo negative con effetti di ritorno non voluti.
A tal proposito, il dato sulla disoccupazione, ovviamente da leggere in stretta attinenza con quello sulla partecipazione alla forza lavoro, è molto efficace se la componente qualitativa delle settimane lavorative fosse più facilmente valorizzabile; in sostanza negli Usa, considerando in modo molto spiccio e pratico che una settimana di disoccupazione è tale e basta, facendo una differenza significativa solo tra settori agricoli e non, si corre il rischio che nel conteggio ci vada a finire un po’ di tutto, e cioè dallo studente universitario che termina i due mesi di lavoro presso un locale per pagarsi spese extra personali, fino ad arrivare all’entrata iniziale in disoccupazione di importanti figure di operai dell’industria; va ricordato poi che il tasso di partecipazione alla forza lavoro non ha del tutto le stesse dinamiche e le stesse tempistiche del tasso di disoccupazione.
Ribadisco quindi un convincimento personale di fondo, e cioè che la bontà di tanti indici e conteggi negli Usa di questi ultimi anni erano dovuti sostanzialmente alla presenza della globalizzazione, che nel suo operare e funzionare faceva sì che la domanda aggregata, controllabile dalla Fed fosse nettamente più importante dell’offerta aggregata, la quale interveniva con le sue variazioni a meccanismo residuale e di compensazione di ciò che era stato progettato.
In sostanza, la sicurezza delle catene di approvvigionamento, delle catene logistiche e delle merci, dei lavoratori a costi bassi permetteva non solo di gestire con efficacia il fenomeno economico, ma giustamente di anticiparlo e progettarlo.Oggi invece si usano vecchi indici e vecchie certezze per scenari nuovi e non più tranquilli come i precedenti, e in effetti aver stimato in questo intervento una decrescita ulteriore dell’inflazione seppure minimale, all’iniziale tranquillità del dato appare però un suo essere problematico dovuto al fatto che tutto ciò è dovuto a un ribasso medio dei prezzi del petrolio sui mercati mondiali del tutto non programmabile e gestibile con sicurezza. In più andrebbe aggiunta la politica di bilancio della Casa Bianca che ha per obiettivo non la sola tenuta dei prezzi, ma il complessivo posizionamento della nazione nel mondo con tutte le ricadute evidenti in termini di impieghi di risorse, dovendo tenere a mente delle continue dinamiche turbolenti del mondo attuale.
La Fed di questi giorni ricorda, quindi, sempre più un forte assediato da forze ostili, in cui la stessa è in posizione di difesa e di attesa: i tassi per scongiurare fiammate sempre più ampie del fenomeno inflattivo, il loro impatto sulle aspettative degli operatori, ai quali non si chiede remissione che porterebbe a contrazione economica mai ben accetta, ma tutt’al più prudenza ed entusiasmi contenuti sia come dinamiche attive che come crisi da scongiurare.
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