Per indebolire Hamas, ma senza fidarsi dell’ANP, Israele si è rivolta bande armate di beduini come le “Forze popolari”. Un gioco che può sfuggire di mano
Gaza brucia. Il suo futuro è incerto. Mentre le bombe cadono e i negoziati per il cessate il fuoco tra Israele e Hamas arrancano, una domanda resta sospesa, tagliente come una lama: chi governerà la Striscia quando Hamas non sarà più al timone?
La campagna militare israeliana ha smantellato le capacità militari del gruppo, ma non ha partorito un’alternativa credibile. Nel vuoto, Israele si è voltato verso le tribù locali, un esperimento per indebolire Hamas, stabilizzare il caos e far fluire gli aiuti umanitari. Ma è una strada pericolosa, un gioco di equilibri fragili che rischia di intrappolare chi lo fa.
A giugno, Benjamin Netanyahu ha ammesso di collaborare con “elementi tribali” per distribuire aiuti attraverso la Gaza Humanitarian Foundation (GHF), appoggiata dagli Stati Uniti. Il protagonista di questa mossa è Yasser Abu Shabab, capo delle “Forze Popolari”, una milizia beduina di Rafah della tribù Tarabin con un passato di contrabbando e contrasti con Hamas. La sua banda, forte di 100-300 uomini armati, si muove coordinandosi con le Forze di Difesa Israeliane (IDF) e la GHF.
Abu Shabab si dipinge come un paladino del popolo, invitando accademici e professionisti a unirsi per creare comitati amministrativi, un abbozzo di governo alternativo. Per fare questo dichiara numeri gonfiati: 6mila reclute per le sue forze armate, 3mila per ruoli civili.
In realtà, altre due milizie, guidate da Rami Khiles e Yasser Khanidek, entrambi legati a Fatah, operano a Gaza City e Khan Yunis. Tuttavia, è Abu Shabab a ricevere il supporto più robusto, trasformando le sue Forze Popolari in una forza paramilitare.
Ma il prezzo è alto: il portavoce ONU per i diritti umani denuncia che, al 7 luglio, 615 palestinesi sono stati uccisi vicino ai centri di distribuzione della GHF, alcuni per mano di queste milizie. Cifre incerte, ma che pesano come macigni. Hamas, dal canto suo, bolla Abu Shabab come traditore, promettendo processi e vendette.
Il problema è la legittimità. Abu Shabab è visto come un collaborazionista, un burattino di Israele. Persino il suo clan, Tarabin, è spaccato. Alcuni membri lo rinnegano. Le accuse di violenze contro i civili non fanno che alimentare l’ostilità. E le recenti proposte israeliane, come la “città umanitaria” nel sud di Gaza – un campo da cui i residenti non potrebbero uscire – non aiutano.
L’idea, ventilata da ministri come Israel Katz, puzza di internamento, e la paura che Israele voglia spingere i palestinesi fuori da Gaza, nonostante le smentite di Netanyahu, è un’ombra lunga.
Perché Israele scommette su queste milizie? È una mossa tattica: indebolire Hamas, garantire gli aiuti, ridurre le perdite dell’IDF. Ma c’è di più. È un modo per mantenere il controllo su Gaza senza cedere né a Hamas né all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), in linea con la dottrina di Netanyahu: “né Hamastan né Fatahstan”.
È un copione già visto. Israele ha appoggiato milizie discutibili in passato, come l’Esercito del Libano del Sud, e tutti ricordiamo i “Figli dell’Iraq” o la Polizia Locale afghana, crollati senza il sostegno straniero. Sono gruppi che nascono fragili, corrotti, privi di legittimità, condannati a dissolversi quando il burattinaio si ritira.
A Gaza, queste milizie possono garantire aiuti e sicurezza a breve termine, ma i rischi sono enormi. In una società frammentata, armare gruppi tribali può accendere guerre intestine, rafforzare criminali, alimentare instabilità. La percezione che siano pedine di Israele non fa che nutrire il risentimento palestinese.
Per evitare il peggio, Israele deve controllare le armi di queste milizie, regolamentarne l’uso, integrarle in una strategia regionale con Egitto, Stati del Golfo e ANP. Ma, soprattutto, deve capire che questo è un cerotto, non una cura.
La vera sfida è il “giorno dopo”. Le milizie non sono una soluzione di governo. L’ANP, pur claudicante, resta l’opzione “male minore”. Ma deve riformarsi, rafforzarsi, riconquistare Gaza. Israele, da parte sua, deve smettere di rimandare l’inevitabile: senza un quadro politico legittimo per i palestinesi, il caos o un’unica terra per due popoli saranno l’unico epilogo. E allora, Gaza non sarà solo un campo di battaglia, ma un monito per chi ha creduto che le milizie potessero sostituire la politica.
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