La protesta degli Haredi mostra il peso crescente in Israele del mondo religioso. Che preme sul governo per non dare seguito agli accordi di pace
Gli Haredi manifestano in massa (200mila persone) perché non vogliono prestare il servizio militare, mantenendo un privilegio riconosciuto loro dalla legge fino a poco tempo fa. Una protesta che dimostra il peso che il mondo religioso ha acquisito nella società israeliana e che si farà sentire nelle decisioni del governo Netanyahu sul futuro di Gaza e dell’intera Palestina. Nonostante il loro diniego, gli ultraortodossi fanno parte di unità dell’IDF che in Cisgiordania si sono rese protagoniste di azioni violente nei confronti dei palestinesi.
In merito alla Striscia, osserva Filippo Landi, già corrispondente RAI da Gerusalemme e inviato del TG1 Esteri, Israele non vuole passare alla fase due dell’accordo, quella in cui si definisce cosa sarà dei territori. Un passaggio che ci sarà solo se i Paesi arabi e islamici faranno pressione sugli USA.
Gli Haredi hanno realizzato una grande manifestazione segnata anche da scontri con la polizia. Che peso ha nella società israeliana il mondo religioso e quanto conta la loro protesta?
La manifestazione a Gerusalemme, organizzata da tutti i partiti religiosi a sostegno della richiesta degli studenti delle Yeshiva di non essere chiamati a svolgere il servizio militare si è svolta in un luogo simbolico, scelto volutamente per mandare un messaggio al Governo e ai sostenitori dell’applicazione della legge e dei regolamenti che dovrebbero portare ad integrare gli studenti all’interno nell’esercito.
Qual è questo luogo e cosa simboleggia?
La manifestazione si è svolta sotto il ponte Calatrava, all’ingresso di Gerusalemme, all’inizio dell’autostrada numero 1 che porta a Tel Aviv: la presenza di centinaia di migliaia di ultraortodossi ha rimarcato la loro forza in alcune località di Israele, in grado di bloccare per poco tempo pacificamente il collegamento tra Tel Aviv e Gerusalemme. Il Ponte, infatti, è il simbolo di Gerusalemme per coloro che arrivano appunto da Tel Aviv.
Qual è la forza degli ultraortodossi nel Paese?
A Gerusalemme uno dei partiti religiosi nell’ultima elezione ha raggiunto il 30% dei consensi. Detto questo, la presenza sempre più massiccia degli ultraortodossi è un fenomeno in crescita che riguarda anche la periferia di Tel Aviv e altre località. Il messaggio che i due partiti religiosi più forti, lo Shas e la United Torah, hanno voluto mandare a Netanyahu e ai partiti governativi con la manifestazione è molto semplice: “La coalizione che sostiene il governo ha bisogno dei nostri voti nella Knesset”.
Perché Israele si è convinto a far entrare anche gli studenti delle Yeshiva nell’esercito?
I comandanti dell’esercito israeliano hanno chiesto di aumentare il bacino dei riservisti a cui attingere, altrimenti il numero delle persone a disposizione rischia di rivelarsi insufficiente a gestire fronti come Libano, Siria, Cisgiordania e ovviamente Gaza.
La questione è annosa ed è fonte di polemiche continue: stavolta la protesta Haredi assume un significato diverso? Evoca un livello di scontro più alto?
Alcuni episodi accaduti nell’ultima manifestazione possono farlo temere: i giovani studenti delle scuole ebraiche sono arrivati allo scontro fisico con i soldati e i poliziotti dispiegati nelle strade. Non credo però che il livello e l’intensità degli scontri possa superare un certo limite naturale.
Qual è il vero rischio?

Ciò che appare più grave per l’equilibrio interno è l’aspetto politico. I partiti religiosi tradizionali hanno un numero sufficiente di deputati per mettere in crisi il governo, anche se non è certo loro interesse far cadere Netanyahu, che in questi ultimi decenni è stato un baluardo contro le insistenze dei cosiddetti partiti laici a togliere agli esponenti ultraortodossi certi privilegi.
Quanto influiranno questi partiti sulla linea del governo riguardo la gestione del dopoguerra e Gaza?
Il mondo religioso israeliano in questi ultimi anni si è sviluppato lungo due linee parallele: da una parte il mondo dei partiti sionisti laici che fa capo al ministro delle Finanze e viceministro per i territori palestinesi, Bezalel Smotrich, e al ministro della Pubblica sicurezza interna, Itamar Ben-Gvir. Due partiti che sono nettamente contro l’accordo sul cessate del fuoco e che non perdono occasione per chiedere la ripresa dei bombardamenti su Gaza. Altra cosa sono Shas e United Torah, che invece sulla vicenda Gaza, proprio perché a questa si lega il richiamo alle armi anche di giovani ultraortodossi, non esprimono posizioni contrarie al cessate il fuoco stesso. Altro discorso è la loro influenza sulla Cisgiordania.
Perché?
Nelle West Bank esercitano la loro influenza attraverso i coloni e alcune famigerate unità dell’esercito israeliano, battaglioni costituiti interamente da giovani ultraortodossi che volontariamente fanno parte delle forze armate. In questi anni queste unità si sono mostrate particolarmente vicine alle attività dei coloni contro i palestinesi e loro stesse si sono rese protagoniste di azioni violente finite nel mirino persino dell’ambasciata americana a Tel Aviv. Il legame con la Cisgiordania è tale che anche i media israeliani affiancano alla protesta Haredi le notizie ormai quotidiane di episodi di violenza e di uccisioni di palestinesi da parte di coloni o di soldati in quell’area. L’ultimo morto è stato un ragazzo di 15 anni.
Al di là di queste poche unità il resto dell’esercito come è orientato?
Ha fatto scalpore nelle settimane scorse il cambio alla guida delle forze militari israeliane in Cisgiordania, perché il nuovo comandante è una persona che abita in una delle colonie e si è sempre espresso con grande determinazione, se non addirittura violenza nei confronti dei palestinesi della Cisgiordania. Questo per dire che è l’intero contingente dell’IDF nell’area che fin dai suoi vertici ha un atteggiamento compiacente nei confronti dei coloni. Per questo alcuni commentatori dicono che ormai ci sono due eserciti: uno che a Tel Aviv attraverso i suoi portavoce dialoga con il mondo americano e occidentale, cercando di giustificare le proprie azioni a Gaza, e l’altro, che è il cosiddetto esercito della Cisgiordania, che non ha alcun interesse a giustificare i propri comportamenti o le proprie compiacenze.
Alla luce di queste considerazioni, e tenendo conto che Netanyahu continua a dire che Hamas deve essere disarmato, cosa possiamo dire delle reali intenzioni del governo israeliano sulla sua gestione del dopoguerra?
Da una parte ci sono questi proclami, dall’altra il riconoscimento che Hamas non è sconfitto. La presenza dei suoi miliziani a Gaza può diventare un problema molto serio per i soldati. Per questo gli USA, con il consenso di Egitto e Qatar, hanno offerto ai miliziani di Hamas che sono rimasti al di là della cosiddetta linea gialla di passare attraverso le linee israeliane con un salvacondotto, per andare in territori non controllati da Israele ed evitare scontri. Gli stessi giornali israeliani fanno presente che fra i 100 morti registrati dopo gli attacchi di Rafah ci sono 46 bambini: difficile dire che fossero terroristi.
Insomma, c’è ancora molto da sistemare prima di passare alla fase due dell’accordo?
Israele non ha nessun interesse a iniziare la fase due. Se così sarà, dipenderà dalla pressione dei mediatori arabi, quindi anche della Turchia, sugli USA.
(Paolo Rossetti)
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