I film "L'amore che non muore" e "Come gocce d'acqua" raccontano due storie segnate dal dolore, ma in cui si apre una speranza
Usciti recentemente quasi in contemporanea, due film sicuramente diversi come L’amore che non muore, del regista francese Gilles Lellouche, e Come gocce d’acqua, dell’italiano Stefano Chiantini, autore della fortunata serie “Una mamma imperfetta”, hanno il merito di non fare sconti sulla sofferenza che tanti giovani devono affrontare. Ma soprattutto hanno la capacità di sollevare lo sguardo sulla possibilità di reagire alle ferite personali e alle disavventure della vita, semplicemente ascoltando con coraggio il proprio cuore.
Cuore che a volte può essere catturato da un amor ouf (il titolo originale del film di Lellouche, in cui ouf è l’espressione gergale che corrisponde a fou, pazzo). Quello che travolge Jacqueline e Clotaire, due giovani della Francia del Nord, che più diversi non potrebbero essere, è proprio un amore travolgente. Lei ragazza fine e disinvolta al limite della sfacciataggine, studiosa e sicura di sé; lui, bello e dannato, ha abbandonato la scuola e si dedica a furterelli e spavalderie giusto per passare il tempo. Un padre vedovo amorevole che fa anche da madre alla fanciulla affascinante e impegnata, una famiglia numerosa e proletaria per il ragazzo allegro e spaccone, che non gli apre alcuna porta per il futuro.
Si incontrano e si sfidano in finti alterchi di odio-amore, per accorgersi poi che in realtà sono fatti l’uno per l’altro. E sulle musiche dei Cure e di Prince, salvate ovviamente sulle cassette registrate degli anni Ottanta, vivono con l’entusiasmo della loro età una storia appassionata, lanciati a cavallo di un motorino. In un paesaggio, lungo quel mare della Francia settentrionale non proprio scintillante, vicino alla fiamma delle fornaci delle fabbriche del porto, dove si spezza la schiena il padre di Clotaire.
Quella fiamma, simbolo della bruciante passione dei due adolescenti, sembra capace di annullare ogni differenza sociale, per nutrirsi dell’energia intima e tenera che li anima. È forse la premessa di un riscatto possibile per Clotaire, così smanioso di prendersi la vita che più lo entusiasma ma che non gli offre alcuna prospettiva? E, nello stesso tempo, è la missione di salvezza della saggia e un po’ sarcastica Jacqueline nei suoi confronti? Del resto anche lei ha bisogno di trovare un affetto che le faccia sopportare l’assenza della mamma, morta tragicamente in un incidente.
Ma l’idillio si spezza improvvisamente. Clotaire, affascinato dal denaro facile entra in bruttissimi giri che lo spediscono dritto in prigione per dieci anni, accusato di omicidio senza essere colpevole. Resiste solo pensando alla sua Jackie (è il soprannome che le ha dato), mentre la ragazza trova con grande difficoltà un equilibrio con un uomo affermato, che in realtà non ama. Si sono dunque persi per sempre?
Tra risse, violenze e ribellioni quasi “sbattute sullo schermo”, in un film a tratti eccessivo e rutilante, ma mai privo di accenti autentici, con originali, studiate inquadrature e una recitazione intensa, la vicenda cattura lo spettatore e lo conduce verso la profondità degli affetti veri e dei sentimenti non superficiali, in cui l’istintività è vinta. Non è detto, infatti, che la rabbia di Clotaire, proletario tradito e violento, e l’apparente e insoddisfatta quiete borghese di Jacqueline debbano avere la meglio. La loro è una lotta per la felicità. Il film, presentato a Cannes nel 2024, in Francia è stato campione di incassi ed è stato premiato ai Cesar.
Come gocce d’acqua ha sicuramente toni più smorzati, ma un andamento altrettanto drammatico, perché affronta il difficile rapporto di un padre separato con la figlia. Ormai il cinema non può non rappresentare e indagare la sempre più diffusa sofferenza dei figli per quello che inevitabilmente percepiscono come un abbandono, quando i genitori si lasciano.
Jenny (Sara Silvestro), la protagonista, è una ragazza seria, giovane promessa del nuoto, che vive con i compagni di allenamento e fatica ad accettare sia lo stile di vita disinvolto della madre Margherita (Barbara Chichiarelli), che le assenze prolungate del padre camionista Alvaro (Edoardo Pesce). Si chiude nei suoi silenzi, accettati con rispetto dal suo allenatore, che la riconosce nel suo valore.
Presentato alla Festa del Cinema di Roma del 2024, il film ha il merito di soffermarsi sul difficile tentativo di Jenny di ricucire il rapporto con il papà, che in passato l’ha sempre seguita, quando poteva, nelle sue imprese di nuotatrice. Tentativo che la ragazza comincia con coraggio e determinazione solo quando l’uomo è improvvisamente colpito da un ictus, mentre sono in viaggio al ritorno da un’importante gara da lei vinta. I ritmi lenti e le inquadrature sobrie ci mostrano il dramma di una figlia che si sente in colpa per aver trattato con ruvidezza il padre, reo di averla abbandonata. Deciderà così addirittura di stargli accanto e curarlo.
Un sacrificio apparentemente eccessivo, che la spinge persino a interrompere la carriera agonistica, proprio per la necessità di ricostituire quel legame familiare originario che le è tanto mancato. Anche quando ci sarà l’intempestiva confessione della madre che, di fronte alla sproporzionata rinuncia della figlia, le rivelerà di punto in bianco che lei non è la vera figlia dell’uomo di cui si sta prendendo cura con tanto amore. È un segreto ingiusto e sconvolgente, che però non impedisce a Jenny di perseverare nella sua scelta generosa, che innanzitutto fa stare bene lei: il padre, infatti, è per la ragazza innanzitutto chi si è preso cura di lei quando era bambina.
Si apre qui un problema di identità e di appartenenza, oggi sempre più diffuso e drammatico, che il regista abruzzese Chiantini decide di non approfondire, pago del tema principale da lui scelto: il valore ineliminabile del rapporto padre-figlio.
Il film, indubbiamente lento ma con interpretazioni convincenti dei protagonisti, forse mostra qualche lacuna nella sceneggiatura, ma non lascia indifferenti. Anche grazie alle belle immagini d’acqua delle lunghe nuotate in piscina o del mare invernale, cupo e insieme poetico, che risulta luogo di gioie vissute nel passato, ma anche di drammi che si affacciano nel presente.
Sono film insomma, quelli presentati, in grado di scavare nell’animo umano: guardato con sincerità e rispetto, riserva sempre sorprese, che due bravi registi come Lellouche e Chiantini ci sanno offrire con passione e autenticità.
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