LAVORO POVERO/ Dai salari alle donne, le mosse per ridurre il numero dei working poor

- Antonella Rocca

Nel nostro Paese l'occupazione è aumentata, ma non sembra essere di qualità in tutti gli ambiti, considerando il numero di working poor

Una donna a lavoro (Pixabay)

Comprendere come si sono evolute negli anni post-Covid la situazione economica e le condizioni di vita degli italiani non è per nulla semplice. Proviamo, pertanto, ad analizzare l’andamento di alcuni degli indicatori economici più importanti per effettuare qualche riflessione.

La ripresa economica che ha fatto seguito alla crisi da Covid-19 è stata superiore alle aspettative in Italia. Dopo anni di crescita economica quasi nulla, nel 2021 e nel 2022 il Pil in Italia è aumentato dell’8,3% e del 4%, rispettivamente, attestandosi addirittura al di sopra della media europea (il tasso di crescita riferito all’intera area Ue-27 è stato infatti del 6% nel 2021 e del 3,5% nel 2022).

Di gran lunga incoraggianti sono anche i dati riferiti all’occupazione in Italia. In base ai dati Eurostat (Istituto di statistica della Unione europea), nel 2022 il tasso di disoccupazione generale è sceso all’8,1% mentre quello giovanile (classe di età 15-24 anni) al 23,7% (Tabella 1). Si tratta di tassi estremamente bassi, se si pensa che la crisi economica del 2007-2010 aveva spinto il tasso di disoccupazione totale nel 2012 al 10,1%, fino a sfiorare il 13% nel 2014 mentre quello giovanile nel 2012 era al 35,3% e nel 2014 raggiunse la punta del 42,7%. Anche il tasso di occupazione ha fatto registrare un incremento, a riprova che la riduzione nel tasso dei disoccupati non sia da associarsi prevalentemente ad un aumento dei tassi di inattività, ovvero a una riduzione delle persone in cerca di lavoro, bensì ad un allargamento della base produttiva della popolazione.

Tuttavia, crescita economica e occupazione non sono gli unici indicatori a cui occorre guardare.

Sempre in base ai dati Eurostat, mentre nell’Unione europea il tasso della popolazione a rischio di povertà nell’ultimo decennio è sceso di 0,4 punti percentuali, passando dal 16,9% al 16,5%, in Italia esso è cresciuto dello 0,6%, passando dal 19,5% del 2012 al 20,1% del 2022. In termini assoluti, questo incremento dello 0,6% indica che, rispetto al 2012, il numero dei poveri in Italia è aumentato di 354.000 unità. Guardando alla situazione del 2022, inoltre, solo la Romania, i Paesi baltici (Lettonia, Estonia e Lituania) e la Spagna hanno fatto registrare valori di poco superiori.

Per spiegare questo apparente paradosso, è importante spostare l’attenzione dalle persone in cerca di occupazione a coloro che sono classificati dalle statistiche ufficiali come lavoratori.

In particolare, occorre guardare ai cosiddetti working poor, ovvero a coloro che svolgono un’attività lavorativa, ma hanno un reddito disponibile equivalente al di sotto della soglia di povertà, fissata al 60% del valore mediano del reddito equivalente nazionale disponibile. Ebbene, l’Eurostat ci informa che il tasso dei working poor in Italia è tra i più alti di Europa. Nel 2022, questa situazione riguardava l’11,5% del totale dei lavoratori. Peggio di noi in Europa soltanto la Romania, con il 14,5%, il Lussemburgo con il 12,9% e la Spagna, con 11,7%. Rispetto al 2012, la quota dei working poor in Italia è aumentata di 0,5 punti percentuali. Anche in questo caso, l’Italia è in totale controtendenza con il resto dell’Europa, dove invece in questi dieci anni si è registrato un decremento dello 0,4% (dall’8,9% all’8,5%).

Possiamo, pertanto, concludere che, sebbene sia aumentata la quota di occupati, la condizione economica di alcuni tra coloro che lavorano ha subìto un peggioramento. A supporto di questa tesi, possiamo considerare anche la quota di quelli che lavorano con un contratto a tempo determinato, che nel decennio in esame è aumentata di quasi 3 punti percentuali, passando dal 10,6% del 2012 al 13,5% del 2022. Il numero medio di ore di lavoro settimanali è, invece, sceso da 36,5 del 2012 a 36,2 del 2022.

Pertanto, è ipotizzabile che sia peggiorata la condizione economica e la quantità di lavoro che svolgono certi lavoratori. A supporto di questa tesi, occorre anche considerare il modo in cui la statistica ufficiale identifica gli occupati. La fonte statistica utilizzata per ricavare le statistiche sulla condizione professionale dei cittadini è l’Indagine sulle forze di lavoro. In base a questa indagine, sono classificati come occupati tutti coloro che nella settimana precedente l’intervista hanno svolto almeno un’ora di lavoro retribuito. In altre parole, quando si guarda alle variazioni nei tassi di occupazione e disoccupazione, non si guarda alla qualità del lavoro creato, né alla effettiva capacità del lavoro di assicurare un sostentamento economico ai lavoratori.

È evidente, dunque, che il tasso di occupazione dovrebbe essere visto soltanto come un primo e non esaustivo indicatore per descrivere la condizione socio-economica degli individui.

È ragionevole immaginare che in questi ultimi due anni la situazione sia anche peggiorata, se si pensa ai recenti incrementi dei tassi di inflazione, che hanno significativamente eroso il potere di acquisto dei redditi dei lavoratori dipendenti.

L’aumento delle disuguaglianze economiche e la crescita delle persone a rischio di povertà richiedono pertanto interventi urgenti per garantire a tutti i cittadini condizioni di lavoro e uno standard di vita dignitosi. Pur nella consapevolezza che non si tratta di problematiche semplici da risolvere e che le cause di questa situazione sono molteplici, è possibile individuare almeno tre ambiti nei quali dei provvedimenti in termini di politica economica potrebbero portare a un miglioramento della situazione. Essi sono l’introduzione di un salario minimo, la stabilizzazione di almeno parte del lavoro precario e le iniziative volte a favorire una maggiore partecipazione al mercato del lavoro da parte delle donne.

Sui 27 Paesi dell’Unione europea, soltanto 6 non hanno ancora introdotto il salario minimo, e tra questi c’è l’Italia. Il diritto a un salario minimo adeguato è menzionato nel principio 6 dell’European Pillar of Social Rights, sancito nel 2017 congiuntamente dal Parlamento europeo, dal Consiglio degli Stati membri e dalla Commissione europea. Il 25 novembre del 2021 il Parlamento europeo ha avviato i colloqui con i Governi dei paesi membri per produrre una direttiva finalizzata a garantire a tutti i lavoratori dell’Unione europea un salario minimo equo e adeguato. Tale principio è stato poi convertito in legge dal Parlamento europeo il 14 settembre del 2022 (Legge n. 2022/2041, pubblicata sulla GU il 19/10/22). La legge prevede che i Paesi Ue dovranno conformarsi alla direttiva entro due anni dalla sua entrata in vigore. La legge lascia, però, ai Paesi che non hanno ancora introdotto il salario minimo garantito, la possibilità di determinare i livelli salariali sulla base della contrattazione collettiva delle retribuzioni. Pertanto, quella europea è un’iniziativa non finalizzata a imporre a tutti gli Stati membri l’adozione di un salario minimo legale, ma è volta a promuovere l’applicazione di un salario minimo adeguato, secondo l’impostazione che il sistema nazionale di relazioni industriali ha costruito nel tempo.

Sebbene buona parte delle evidenze empiriche e della letteratura economica sembrano dimostrare che l’introduzione del salario minimo possa avere conseguenze negative sui livelli di occupazione, in quanto esso tende ad aumentare “artificialmente” il salario marginale (ovvero il salario definito sul mercato dal punto di incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro), riducendo pertanto la domanda di lavoro da parte delle imprese, è innegabile che esso possa apportare un miglioramento nelle condizioni economiche dei lavoratori che svolgono mansioni cui si associano basse retribuzioni che non sono capaci di garantire un lavoro dignitoso e, di conseguenza, uno standard di vita decoroso.

Un’altra azione altrettanto urgente si collega alla stabilizzazione del lavoro precario. Il lavoro a tempo determinato è infatti solitamente associato a ridotte possibilità di carriera e a retribuzioni inferiori rispetto al lavoro a tempo indeterminato. Pertanto, se da un lato può essere un utile strumento per flessibilizzare un mercato del lavoro che per tanti anni si è mostrato troppo rigido, dall’altro dovrebbe garantire quei requisiti minimi di sicurezza e rendere conveniente alle imprese investire nei suoi lavoratori in un’ottica di lungo periodo.

Infine, siccome il fenomeno dei working poor è più frequente nelle famiglie monoreddito, promuovere e sostenere una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro è sicuramente un modo per ridurre il rischio di povertà delle famiglie italiane. Non è una questione da poco, quest’ultima, se si pensa che l’Italia è ancora oggi fanalino di coda in Europa rispetto a questo indicatore: nel 2022, il tasso di attività delle donne italiane era solo al 56,4%, contro una media europea del 69,5%. D’altra parte, la non elevata diffusione del part-time in Italia, almeno se confrontata a quella dei Paesi scandinavi, rende solitamente nel nostro Paese non marginale il contributo economico delle donne al reddito familiare nei casi in cui esse sono impegnate in attività lavorative.

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