Luigi Di Maio ha annunciato il varo, nel decreto dignità, di misure per evitare le delocalizzazioni. Misure che potrebbero non essere realmente efficaci. GIUSEPPE SABELLA
Una parte rilevante del cosiddetto “decreto dignità” riguarda le delocalizzazioni, questione a cui lo stesso Ministro Di Maio ha dato risalto nel presentare l’intervento. Il fenomeno è sempre più centrale nell’andamento economico: sono sempre più frequenti i casi di imprese – italiane ed estere – che spostano la produzione laddove trovano condizioni per loro migliorative. È vero che ci sono casi in cui gli investitori hanno approfittato delle agevolazioni che hanno avuto dallo Stato italiano e anche – si pensi all’eccellenza del nostro manufacturing – del know how che hanno acquisito. Ma il fenomeno è molto più complesso del semplice costo del lavoro altrove (specialmente a Est) inferiore.
Venendo al decreto in oggetto, questo prevede multe per chi delocalizza: alle aziende che hanno ricevuto aiuti di Stato e che delocalizzano le attività prima che siano trascorsi dieci anni, arriveranno sanzioni da 2 a 5 volte il beneficio ricevuto; andrà recuperato anche l’iperammortamento in caso di delocalizzazione o cessione degli investimenti. Il decreto è imperniato quindi su un meccanismo punitivo a contrasto del fenomeno delle delocalizzazioni. Ora, premesso che qualche investitore che fa il furbo lo abbiamo, è chiaro altrettanto che per rendere meno frequenti le delocalizzazioni, più che punire chi delocalizza bisogna rendere più attrattivo il terreno per chi investe. E il problema del costo del lavoro – a parte il fatto che il nostro è in linea con la media europea – è parziale.
Il gap che abbiamo in aspetti determinanti per la crescita – quali fisco, energia, burocrazia e infrastrutture – è noto da anni. Per quanto riguarda il gettito fiscale così pressante per le imprese (e per le famiglie), curiosamente negli ultimi anni si è speso più il sindacato che le organizzazioni datoriali. L’energia ci costa circa il 30% in più dei nostri diretti competitor, avendo noi rinunciato al nucleare. Da quanti anni parliamo poi di semplificazione? La burocrazia e i suoi costi, soprattutto per le nostre Pmi (che non hanno la forza organizzativa delle multinazionali), sono una zavorra. In ultimo, il problema delle infrastrutture – i comitati per il no ogni qual volta si ponga il problema di uno sviluppo della nostra rete paese – è qualcosa che prima o poi bisognerà mettere a sistema, dato che per l’industria – e fino a prova contraria l’Italia continua a essere il secondo Paese manifatturiero d’Europa . gli aspetti della logistica sono vitali. Un esempio su tutti: la rete stradale che circonda il Petrolchimico di Augusta-Siracusa – uno dei distretti industriali più importanti che abbiamo, dove sono presenti 4 tra le 30 aziende con maggior fatturato in Italia – è assolutamente inadeguata: rete debole, poco manutenuta e, anche, con scarsa ricezione della linea telefonica mobile.
I furbi vanno certamente puniti, ma sono questi i veri problemi che fanno scappare gli investitori. L’Italia, per il futuro del suo manufacturing, ha prima di tutto bisogno di rilanciare la sua capacità attrattiva.
Twitter: @sabella_thinkin