Impazza il dibattito, molto tattico e poco di merito, sulla legge elettorale. La Meloni vorrebbe il nome sulla scheda, ma il campo largo non ci sta
Ci risiamo con la legge elettorale e vedremo come la chiameranno questa volta, se mai si arriverà a dei cambiamenti entro fine legislatura.
In attesa, ogni occasione viene ormai letta in questa prospettiva: perfino l’invito della Meloni alla Schlein per la festa FdI di Atreju – con Conte che ovviamente si mette di mezzo – diventa un segnale da interpretare, come il fondo di una tazza di caffè, in vista di un potenziale segno di gradimento (o sbarramento) del Pd ad iniziare una trattativa.
Il problema è che tutti e ciascuno sperano dal possibile cambiamento di guadagnarci qualcosa, ma visto che gli interessi sono diversi è ben difficile che ci guadagnino tutti.
Permettetemi di scrivere che ho una lunga esperienza in questa materia e personalmente non credo che si arriverà ad un accordo, perché gli italiani sono comunque sempre, più o meno, per il 40-45% di centro e destra, per il 40% di sinistra, con un 10% al centro e gli altri mine vaganti che votano per l’uomo (o la donna) del momento.
In realtà il fatto nuovo è semmai che – in un crescendo accelerato – quasi la metà degli elettori è stufo o disinteressato ad andare a votare perfino per le elezioni politiche, figuriamoci quanto sia interessato a questo tipo di dibattiti. Certo l’elettore ha comunque una sua “anima” politica, che tuttavia è sempre meno radicata nelle nuove generazioni. Nella “prima repubblica” il senso di appartenenza era ben altra cosa: nascevi e morivi democristiano, comunista o missino. E tuttavia quest’anima politica tende ad identificarla più in un (una) leader che in un partito.
Tornando all’oggi, come eventualmente arrivare ad un accordo? La Meloni ha da sempre un sogno nel cassetto che si chiama repubblica presidenziale, ma anche questa volta non ce la farà a realizzarla, così come non vedrà probabilmente la luce nemmeno il suo fratello minore, il “premierato”.
Così la Meloni che oggi vede le prime difficoltà a tenere insieme la barca di governo – va detto, con meno problemi del previsto – capisce bene che il miglior collante per scollinare oltre il 2027 è avere il suo nome stampato sulla scheda. Per contro, gli avversari sanno che, se si consolida il “campo largo”, hanno solide probabilità di combattere all’ultimo voto, unica formula per tenere insieme personaggi ed opinioni così diverse, sempre considerando che il migliore (e spesso unico) collante è il loro sentimento anti-meloniano.
Teoricamente, quindi, un sistema che prevedesse più liste con indicato sulla scheda il leader dello schieramento e un premio in seggi per poter poi governare abbastanza tranquilli potrebbe funzionare, ma… Il “ma” fondamentale è che se oggi nessuno contrasterebbe la leadership della Meloni nel centrodestra, il “campo largo” può funzionare solo con un equivoco: non indicare “prima” chi sarebbe il/la leader di governo.
Se sulla scheda oggi fosse indicata leader, per esempio, Elly Schlein, molti elettori la rifiuterebbero; lo stesso se fosse Conte, ed ecco quindi che un teorema potenzialmente funzionante si arenerebbe in partenza.
Certamente un rinnovato sistema proporzionale sarebbe gradito a chi può giocare una partita identitaria (Lega, M5s), così come le preferenze piacciono a chi è capace di intercettare i voti “clientelari” (sta avvenendo a Forza Italia soprattutto nel Sud) ricordando che il meccanismo fu prima ridotto e poi abolito giusto trent’anni fa proprio per le sue nefaste conseguenze.
Forse il mitico 16 volte ministro Dc Remo Gaspari, capace di trasformare in postini o invalidi (quasi) tutti gli abruzzesi d’Italia (ovvero anche quelli che vivevano al Nord, precettati a tornare a votare) non se lo ricorda più nessuno, ma sono lezioni di storia che non andrebbero dimenticate.
Conclusione: difficile cambiare con una formula che vada bene per tutti. Con un particolare che è ormai tradizione, ovvero che le riforme elettorali di solito portano male a chi le propone.
(marco.zacchera@libero.it)
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