LETTURE/ Bellezza e memoria: come ritrovare noi stessi tra intrattenimento e disincanto

- Angelo Campodonico

Con l'ultra-secolarizzazione la dimensione religiosa non si è estinta ma trasformata. Oggi cerca "forme" capaci di ricomporre l'identità dell'osservatore

vangogh scala auvers 1890arte1280 640x300 Vincent Van Gogh, Scala a Auvers (1890, particolare)

Oggi si è soliti visitare una mostra in “religioso silenzio”. Diversamente da quanto avevano preconizzato le sociologie degli anni Sessanta, gli effetti della modernizzazione non hanno portato all’estinzione della dimensione religiosa, quanto piuttosto alla sua fuoriuscita dai contenitori tradizionali e al suo riversamento in ogni ambito utile della vita sociale, al prezzo di una profonda trasformazione. Questa è la tesi centrale del volume di Giuliano Zanchi, Lo spirituale dell’arte: Estetica e società nell’epoca postsecolare (Editrice bibliografica, 2023).

La dimensione religiosa non scompare, ma si trasforma: «Nella nostra civiltà si vive come se la Storia […] stesse semplicemente alle spalle di un presente che si presume definitivo. Dalla sua stazionaria piattaforma d’arrivo esso fa del suo passato uno scollegato deposito di suggestioni da riciclare. In questo senso l’industria dell’intrattenimento, dal gaming alla serialità televisiva passando per la divulgazione culturale, costruisce perfettamente la miscela di disincanto e fascinazione con cui quest’epoca elabora la memoria del suo vecchio mondo sensato. L’era postsecolare non sa dimenticare il tempo in cui si credeva”.

La tesi del libro si fonda sulla convinzione che “la cultura artistica sia oggi lo spazio simbolico di espressione e di esperienza di quella dimensione che si può chiamare il tratto di sensibilità spirituale tipico della condizione umana. In particolare, quell’ambito della cultura artistica che custodisce, promuove, divulga e diffonde la rinnovata aura della sua tradizione storica, singolarmente incarnata nel primato iconico del grande capolavoro” (p. 14). La vita dell’individuo postsecolare, orfana dell’antico quadro valoriale avvolgente e strutturante, accosta, per i suoi bisogni di senso, fonti di significato mediate da fascinazione estetica e individuate in oggetti e in situazioni rese un valore dal loro isolamento atemporale.

Nella civiltà dell’eterno presente quella della musealizzazione è una prassi che si applica non più solo alle opere d’arte o agli esemplari di una cultura esotica, ma a qualsiasi cosa. Rendere oggetto da museo è divenuto una forma del nostro rapporto col significato della realtà. La visita guidata è il vero rito “che si celebra in quella cattedrale, nuova devozione per una qualità umana che il cittadino sensibile del mondo moderno cerca nel nutrimento di emozioni intellettuali attinte dal depositum dell’arte e della cultura. Assegniamo all’arte l’ufficio sociale del riscatto di un nuovo e possibile umanesimo, necessario alla vita sulla terra in questo contesto di azzeramento nichilistico delle ragioni e decostruzione positivistica delle affezioni. E facciamo bene, perché l’arte resta il più autorevole frontman di quella dimensione del sensibile in cui agisce lo spirituale dell’umano”.

Tracce viventi di un passato altrimenti inattingibile, le opere d’arte agiscono nella logica che è stata quella dell’antica icona, sacramenti della sola trascendenza ammessa nell’agnosticismo programmato della nostra epoca, che è quella del tempo. L’autore sostiene che i grandi eventi espositivi abbiano ereditato la funzione sociale e antropologica della vecchia ostensione sacra e dell’antico pellegrinaggio religioso, laicizzato nel culto dell’arte e destinato a ospitare una forma secolare di devozione, che si esprime per molti nell’assolvere il precetto sociale di un collettivo dovere di contemplare.

Egli ne trae inoltre un’implicazione filosofica ovvero che “nel suo dogmatismo, la frattura kantiana fra io e mondo, non sia così adeguata a spiegare il fenomeno umano, tanto meno quella cartesiana fra ragione e passione, tra intelletto e sentimento, e in generale l’inveterato sensismo di matrice humiana che induce a escludere la sensibilità e il sentimento dall’effettiva partecipazione all’orientamento della coscienza verso l’esperienza della verità”. Nessuna cultura, scrive Roberta De Monticelli, “ha vissuto uno scarto così incolmabile fra ciò che viviamo, che facciamo, che diciamo di noi stessi nel linguaggio di tutti i giorni e in quelli della poesia e delle arti, e ciò che pensiamo nei linguaggi ufficiali della riflessione teorica […] non viviamo come pensiamo, non pensiamo come viviamo”.

Il linguaggio di tutti i giorni e quello della poesia e delle arti, che manifesta le buone ragioni che motivano le nostre scelte reali, dove ne va veramente di noi, è spesso estraneo ai linguaggi ufficiali delle discipline teoriche, oggi di matrice prevalentemente scientifica, che pure adottiamo come professioni di una fede che non pratichiamo. Colmare il divario fra il pensiero e la vita reale con le sue domande di senso è il compito non facile, ma affascinante che abbiamo di fronte.

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