L’apologia della dignità umana di Pico della Mirandola è un contenuto umanistico che si mantiene, anche in tempo rinascimentale, cristianamente ispirato (3)

Nella scia indicata nei due precedenti interventi, per comprendere veramente Pico della Mirandola e la sua apologia della dignità umana è necessario partire da alcuni precisi dati di fatto.

Si coglie prima di tutto che la sua tesi di fondo va spogliata di ogni valenza veramente rivoluzionaria. Non si può che giudicarla in ben altro modo se si riconosce che rifonde in sé gli spunti ricavati da una linea di pensiero risalente fino alle sorgenti del discorso cristiano intorno all’uomo, alla sua origine e al suo destino.



L’oratio di Pico li ricollega poi con gli indizi di conferma attinti da altre tradizioni, e quindi li enfatizza, li sviluppa in una direzione che può apparire persino estremizzata. Ma il fulcro essenziale da cui si prendono le mosse è, con ogni evidenza, la concezione del soggetto umano inteso come l’approdo straordinario di un disegno intelligente del Logos divino, che lo ha chiamato a un ruolo di preminenza sul complesso della realtà creata.



Alla base di questa visione sta la grande sintesi narrativa del libro della Genesi, ripresa, commentata e sviluppata in mille rivoli diversi dall’esegesi dei Padri della cristianità primitiva, attraverso la predicazione accumulata nel corso dei secoli, declinata nella letteratura educativa prodotta dagli uomini di Chiesa, nella sua arte, nella sua poesia, fino alla grande pittura religiosa del Rinascimento, fino alla rappresentazione della corporeità fisica dell’uomo ­– per citare un solo esempio clamoroso – nell’arte di Michelangelo.

Non è certo casuale che, nello specchio della potenza evocativa delle sue immagini grandiose, il valore positivo della creatura umana si trovi esaltato grazie allo splendore della sua forma, riflessa nell’armonia di una bellezza anche materiale e tutta incarnata, secondo una plasticità modulata sulla scorta dell’arte degli antichi, passando per il riuso di stili espressivi messi al servizio della pietà cristiana di ogni tempo.



Si tratta proprio di provare a ragionare su cosa abbia reso possibile l’invenzione esplosa nel prodigio degli affreschi della volta della Sistina e del Giudizio universale, con la scena stupenda della creazione dell’uomo che ruota intorno al perno delle due mani: quella di Dio che suscita la vita dell’uomo che gli sta di fronte, e quella dell’uomo che si protende fino a sfiorare il dito dell’onnipotente Creatore in un gesto di alleanza sponsale. Ѐ in questo congiungersi degli estremi che riposa il senso di una chiamata a cui l’uomo deve soltanto rispondere.

Michelangelo, nato nel 1475, è stato praticamente un contemporaneo di Pico, pur essendo vissuto molto più a lungo di lui (1463-1494). La sua arte – e più in generale, la rappresentazione della figura umana nell’arte del Rinascimento – sono lo svolgimento visivo di uno sguardo sul mondo dell’uomo illuminato dalla fede.

Quella fede che, dal racconto primordiale della creazione posto agli inizi dell’Antico Testamento, percorre sotterraneamente tutta la scrittura biblica (un solo riscontro: salmo 138, “Ti lodo [Dio], perché mi hai fatto come un prodigio”), da qui è rifluita nei suoi esiti neotestamentari (i gigli del campo, i capelli contati…) e si è strutturata nel fiume straripante del magistero cristiano di ogni epoca, in tutto lo spessore della sua sedimentazione storica (anche andando molto al di là di Ireneo, Contro le eresie, II secolo: “La gloria di Dio è l’uomo vivente”).

Michelangelo, “Pietà Rondanini” (1564, particolare)

L’eredità di questi snodi autorevoli del pensiero è stata poi raccolta dai commentatori, dai predicatori, dai maestri di dottrina delle grandi scuole teologiche del pieno Medioevo. L’hanno semplicemente rielaborata con accenti inediti Tommaso d’Aquino e i teologi-filosofi della prima Scolastica, con la loro riscoperta della natura creata, del valore della ragione, dell’ordine e della decifrabilità di un universo rappresentato secondo i canoni della cosmologia tolemaico-aristotelica, dunque fondato sull’armonia e sulla ricerca della perfezione, in funzione dell’uomo che ne era ritenuto il centro (e a servizio del quale tutto era stato concepito fin dagli inizi: in un certo senso, in forza sempre di una sorta di “antropocentrismo”, ma un antropocentrismo tutt’altro che polemico e meno ancora in conflitto con il primato del religioso).

Gli elementi tipici di una nobile tradizione di discorso sulla realtà dell’uomo reso pieno di dignità dalla sua relazione ontologica con il Dio creatore risultano ampiamente presenti nella letteratura religiosa del Quattro-Cinquecento.

Guardando alle fonti scritte, si può citare il riscontro illustre di Egidio da Viterbo. Generale degli agostiniani, cardinale dal 1517, fu un pensatore che si dimostrò capace di conciliare la militanza ai vertici della Chiesa di Roma con gli studi teologici ed esegetici allora di avanguardia, con l’apprendimento dell’ebraico e della cabala cristianizzata, in una prospettiva di sperimentazioni per molti versi coraggiose, analoga a quella seguita da Ficino – un altro autore rinascimentale intervenuto nei suoi testi sul tema della dignità dell’uomo – e molto vicina anche a quella privilegiata dallo stesso Pico.

Prima ancora, il tema della statura di eccellenza da riconoscere alla realtà della persona umana lo vediamo travasato nel potentissimo medium orale della predicazione, che era lo strumento principe per l’acculturazione in una società scarsamente alfabetizzata, dove la parola fissata nei testi era solo uno dei veicoli di diffusione delle idee, a fianco di altri anche più penetranti e ramificati.

Lo storico nordamericano John W. O’Malley, maestro autorevole degli studi sul cattolicesimo dell’età moderna, ha messo a fuoco la ricezione dell’antropologia positiva di matrice religiosa indagandone le tracce esplicite nelle forme più alte e culturalmente avanzate dell’oratoria sacra del Rinascimento: quelle della predicazione in lingua latina tenuta alla presenza del papa nel contesto della cerchia prestigiosa della Roma curiale, la stessa a cui intendeva rivolgersi Pico, nel medesimo contorno di anni, con la sua orazione del 1486.

O’Malley segnala il caso della predica per il mercoledì delle Ceneri del 1531, dove la riproposta in chiave ottimistica del destino di salvezza dell’uomo scaturisce, per contrasto, dalla contemplazione del suo stato sofferente di caduta dopo la colpa del peccato di origine, su cui insisteva un filone altrettanto rilevante della trattatistica morale dell’età corrispondente al primo Rinascimento; un filone che, come si registra per la tematica in controluce della dignità dell’uomo, trovava precedenti ugualmente autorevoli nella corrente che si potrebbe definire “pessimista” del pensiero alimentato dalle istituzioni della Chiesa medievale.

Ma anche qui, come per l’opposta etichetta trionfalista dell’ottimismo tutto e solo positivo, si tratta di schematizzazioni che si rivelano unilaterali, una volta messe a confronto con il panorama dell’intero, dove i due lati si bilanciavano a vicenda per spiegare l’ambivalenza tra la vocazione dell’uomo alla conquista della massima dignità e la fragilità del suo destino storico viziato dalla rivendicazione di una autonomia malsana, deviata nella patologia della ribellione a Dio.

(3 – continua)

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