L’idea di un rinascimento nemico e ostile all’eredità cristiana è frutto di una visione schematica estranea alla cultura e alla storia delle fonti (2)
Ragionando sulle fonti dell’antropologia rinascimentale a partire dal De hominis dignitate di Pico della Mirandola, ci troviamo messi di fronte a qualcosa che è molto di più di una convergenza fra orientamenti comuni coltivati da una parte dalla mentalità cristiana, dall’altra dalla cultura umanistica ancorata alla lezione degli antichi.
Per comprendere l’interesse con cui, su entrambi i fronti, si guardava agli sviluppi nella direzione di un discorso filosofico centrato sul valore della ragione, e nello stesso tempo capace di mantenersi nei confini di una ortodossia ben definita nelle sue linee portanti, bisogna piuttosto pensare a una rete intricata di commistioni, che affondavano le loro radici in un terreno condiviso.
Solo tenendole nel debito conto si può abbracciare nel suo insieme il contesto da cui è scaturita l’immagine di uomo tipica dell’alta cultura del Rinascimento.
In questa prospettiva, il rapporto con il lascito della sapienza religiosa cristiana, riversata nella circolazione dei prodotti intellettuali che ne sono stati influenzati, si annuncia così stringente da consentirci di immaginare un vero e proprio legame di discendenza.
Anche il linguaggio degli umanisti laici più innovatori non ha spezzato il cordone ombelicale che lo connetteva ai testi fondativi della Rivelazione, alle formule teoriche delle sintesi catechistiche, al bagaglio di citazioni che ne divulgavano i nuclei essenziali.
Per cui appare lecito affermare che l’antropologia del vero Rinascimento – quello rivelato dai documenti accostati di prima mano, che ce ne restituiscono lo spirito autentico, senza filtrarlo nello schematismo di precomprensioni deformanti – si configurava come la proiezione su nuove strade della tradizione teologico-religiosa con cui la filosofia rinascimentale in via di costruzione ha aperto un intenso scambio dialettico.
Di questa tradizione la ragione filosofica ha ripreso i princìpi e molte formule espressive, senza dubbio. Ma ha anche criticato i metodi, la selezione e l’uso delle fonti, alcune delle più significative articolazioni concettuali, innescando dibattiti e segnalando problemi che poi avrebbero costretto la stessa filosofia religiosa di matrice teologica a ripensare sé stessa generando dal suo seno, proprio a partire dalla svolta rinascimentale, il movimento della Seconda Scolastica.
La questione di fondo che non si può eludere è il credito da dare alla vivacità di un dialogo mai interrotto tra la logica della fede e la logica della ragione filosofica in senso stretto, viste come i due lati distinti, quanto a contenuto e modo di regolarsi, ma allo stesso tempo tra loro congiunti, interdipendenti, dell’unico processo di conoscenza con cui l’uomo della prima età moderna entrava in rapporto con la realtà in cui si trovava implicato.

Erano due lati, o due strumenti di decifrazione del reale irriducibili l’uno all’altro, per statuto non coincidenti sul piano delle garanzie di aderenza alla verità e quanto ai criteri di verifica dei dati esibiti, essendo la rivelazione divina affidata al libro sacro tutt’altro che pienamente sovrapponibile alle esplorazioni della ragione filosofico-scientifica, chiamata, dal basso, a fornire le prove il più possibile incontrovertibili delle sue progressive acquisizioni. D’altra parte si trattava di due lati legati da una tensione che implicava la ricerca di una intesa non automatica né sbrigativamente obbligata, a senso unico, con la ragione condannata al solo servizio subalterno della fede.
Questa tensione conteneva in sé anche una possibilità di espansione e di vitalità creativa, non era unicamente il sintomo di una strisciante crisi solo distruttiva: era il varco irrinunciabile da attraversare per introdursi in un cammino di arricchimento dell’esperienza umana come tale, nei suoi differenziati campi di manifestazione.
E dopo tutto, era una tensione che aveva cominciato a maturare già molto prima della cosiddetta “frattura” rinascimentale, nel cuore della stessa fioritura della cristianità medievale, nella prima Scolastica di Tommaso e degli ordini mendicanti, con la loro ardita promozione del valore della ragione (della ragione filosofica umana, a fianco della più classica teologia onnicomprensiva fondata sulla fede rivelata), appoggiandosi alla quale l’uomo era abilitato a dilatare i contenuti intrinseci della Parola divina, li metabolizzava applicandoli ai diversi aspetti della molteplicità del reale e così li rendeva ancora più persuasivi, vantaggiosi e tendenzialmente accettabili per tutti, tentando di dimostrarne la piena aderenza alle strutture della realtà conoscibile.
Non è neanche detto, però, che il tentativo andasse sempre a buon fine. Lo dimostrano le controversie che si accesero nel Rinascimento intorno a punti dogmatici rilevanti come la dottrina dell’immortalità dell’anima individuale, o più tardi tutta la discussione intorno al rapporto tra fede religiosa e applicazione della ragione alla sistematizzazione scientifica delle realtà naturali dell’universo fisico.
Nella linea indicata, se vogliamo intendere pienamente il senso del testo da cui abbiamo scelto di partire nel nostro percorso di riflessione, non possiamo sfuggire alla necessità di reintrodurlo nel tessuto della cultura di cui è stato espressione. Anche nell’oratio di Pico ha trovato voce la cultura del mondo uscito dall’apogeo di quello che solo dalla fine del Seicento e dal Settecento abbiamo cominciato a definire come “Medioevo”, ma che fino ad allora – senza che si facesse ricorso a uno schema di periodizzazione che separa due fasi storiche contrapposte, segnando una cesura rispetto alla successiva “Età moderna” – coincideva con una semplice tappa sul filo di un sviluppo solo più tardi spezzato, guardando a ritroso nel tempo.
Il peso degli elementi di continuità e il debito accumulato con la tradizione lasciata alle spalle hanno tracciato la strada che ha consentito di dare vita al De hominis dignitate, così come a diversi altri testi di impostazione analoga che hanno preso forma nella stessa epoca.
Un approccio storicamente intelligente a questi frutti del pensiero non può prescindere dalla marcata dimensione religiosa della grande cultura del Rinascimento, riportata in piena luce dalla ricerca più accreditata sul piano internazionale maturata nel corso del Novecento. La pista del Rinascimento (o dell’umanesimo) cristiano, unita all’idea della simbiosi tra l’innesto nella visione del mondo dominante nell’età che ha preceduto l’avvento dell’incredulità moderna e lo spalancamento alla forza creativa della ragione costruita sui suoi metodi specifici per l’accertamento della verità sono le chiavi più efficaci da adottare per procedere nel discorso che abbiamo avviato.
(2 – continua)
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