Barocco e classicismo (1957, nuova edizione italiana Studium, 2025) è l’opera geniale di uno dei maestri della storiografia europea dell’ultimo secolo. Con mano sapiente Victor-Lucien Tapié ci introduce nell’universo che in modo decisivo ha contribuito a determinare il volto del nostro Occidente moderno. Seguendone le tracce, siamo invitati a compiere un viaggio affascinante per accostare dall’interno, in presa diretta, i diversi volti del “gusto” dominante nelle forme artistiche e culturali dell’intero spazio continentale, tra gli ultimi splendori del Rinascimento e l’affermarsi della più matura stagione illuminista, con la sua oscillante e tutt’altro che solo implacabilmente distruttiva volontà di rottura in rapporto al sistema dell’Antico Regime.
L’esplorazione prende avvio dal grande cantiere in fermento di Roma “triumphans”, fulcro di gravitazione di una cristianità ormai frammentata al suo interno, ma ciò nonostante vivacissimo laboratorio di sperimentazione dei nuovi modelli che trovarono in Bernini e Borromini i loro approdi più spettacolari. Poi si seguono le vie di espansione del nuovo orientamento barocco, in dialettica con i codici di ordine più lineare del classicismo, verso l’accogliente mondo francese, dove cominciava ad affermarsi l’astro nascente della monarchia di Luigi XIII e del Re sole. Si guarda all’Europa centrale dominata dagli Asburgo, nel cuore delle terre dell’Impero, più in là agli sviluppi conosciuti nelle periferie della galassia slava, polacco-lituana e russa e, secondo ben diverse prospettive, verso i margini insulari della potenza inglese.
Su un’altra direttrice ancora, più robustamente marcata, il barocco ricostruito da Tapié manifesta la sua prevalente vocazione mediterranea e sottolinea l’ancoraggio privilegiato al retroterra cattolico. Ѐ la linea, gravida di sviluppi fecondi, che ha portato il barocco a radicarsi nel contesto iberico e da qui, rivestito di brillanti caratteri specifici, a lanciarsi verso l’inculturazione del patrimonio europeo sulle frontiere delle sempre più ramificate proiezioni coloniali del Vecchio Mondo: un mondo che cominciava a spalancarsi in senso planetario, ma che continuava a identificarsi, non certo in termini di vuota simbologia retorica, con la Christiana respublica. Le lacerazioni confessionali e gli endemici conflitti interni sbrigativamente etichettati come “guerre di religione”, con l’effetto di inevitabile distorsione che ne deriva, non avevano ancora frantumato l’animo al fondo unitario di un ethos di civiltà carico dei retaggi di una tradizione plurisecolare.
Il punto di forza dell’approccio realistico proposto da Tapié, pienamente storico e non ingabbiato negli schemi di una astratta “storia delle idee”, intellettualisticamente selettiva, si fonda sulla non comune capacità di combinare l’analisi raffinata dei fenomeni artistici con l’affresco dei contesti politici e sociali. L’elaborazione degli stili di espressione e delle forme di cultura non è vista come una sovrastruttura isolata, ma viene a intrecciarsi con il ruolo delle istituzioni, la gestione del potere, la forza creativa dell’elemento umano che riplasma l’esistente e inventa il nuovo.
Particolarmente suggestiva è la lezione fondamentale di metodo che si affaccia a più riprese nel corpo del testo, in merito a cosa voglia dire conoscere il passato e condividere la ricchezza dei suoi valori più positivi dentro la realtà del presente. Tapié non ha dubbi sul fatto che si può comprendere il senso di una tradizione da cui continuiamo a essere nutriti solo se riusciamo a cogliere lo spirito che l’ha generata e l’ha mantenuta viva sul filo del tempo. Bisogna sempre partire dal cuore della realtà con cui si desidera entrare in rapporto, non dalle sue manifestazioni più periferiche e di valore gerarchico secondario. Si tratta di far riemergere la logica che ha tenuto insieme la varietà infinita degli esiti prodotti dalle vicende del passato lasciato alle spalle. E la strada maestra per arrivare a assimilarla non può che essere il tentativo di restituircela, cioè di renderla in qualche modo vicina, di nuovo evidente, in un certo senso ancora sperimentabile attraverso i segni materiali, le voci, le testimonianze più eloquenti e più coinvolgenti che ce ne tramandano gli echi con la maggiore efficacia persuasiva. La visibilità dell’arte creata dalla disseminazione delle risorse investite in ciò che a prima vista è il superfluo contiene la forza di richiamo più strepitosa su questo versante. Scrive Tapié nella prefazione alla seconda edizione francese del suo volume: “Non basta che si sia acquisita l’informazione fornita da libri, articoli eruditi e archivi; occorre essersi, per così dire, permeati con la frequenza dei soggiorni, la familiarità dei luoghi, l’osservazione delle vestigia”. Viene risolutamente riaffermato il primato dell’immedesimazione cordiale come motore della vera cultura.
La descrizione della Roma secentesca, “Città Eterna” e sede del governo dei papi che si trasforma assumendo il suo impianto moderno, nella prima parte dell’opera di Tapié, è da questo punto di vista un esempio di elevata qualità anche stilistica. Non a caso, il libro inizia evocando le forti sensazioni che si possono imprimere nell’animo di “un francese colto che, un bel pomeriggio d’autunno, si trattenga sulla terrazza del castello di Versailles”, e qui cominci a contemplare lo spettacolo che vede spalancarsi sotto i suoi occhi: lo “vede”, non lo incontra ridotto a uno scheletro di parole riferite da fonti indirette. In chiave ancora più scopertamente autobiografica, la prefazione che abbiamo citato non si trattiene dallo svelare le precise circostanze che favorirono, nel fiore della giovinezza di Tapié, l’accendersi del suo amore per l’oggetto rimasto sempre al centro di un’instancabile, e quanto mai fertile, attività di ricerca: “Era certamente un’occasione, negli anni Venti, andare a Praga, giovane e ignorante, e immergersi senza preparazione alcuna nel meraviglioso scenario delle chiese e dei palazzi barocchi […]. Ma l’occasione diveniva destino se si era ammessi alle lezioni d’un maestro incomparabile, il cui primo consiglio fu d’imparare il ceco: il professor Josef Pekar…”.
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