"La signorina Else" di Arthur Schnitzler, ovvero la fine di un mondo. Una condanna impotente dell'ipocrisia che distrugge la classe media

La vicenda narrativa dietro La signorina Else di Arthur Schnitzler (1862-1931) è in realtà semplice ed efficace, da testo breve. Else è una insoddisfatta cocca di famiglia, cresciuta in uno scivoloso agio comportamentale. Un’agiatezza ricercata all’esterno, ma tarata dentro quanto una mela bacata. Il padre è avvocato di peso, ma preso da debiti di gioco, continuamente a rischio di arresto, continuamente esposto all’insolvenza. La madre è burattinaia e manipolatrice, fa appello a una prosa pedante e a valori che ella stessa non pratica davvero. Nella storia si inserisce, ancora, un ambiguo e untuoso, famelico e ipocrita creditore paterno – satiro e satrapo – von Dorsday, che è pronto a condonare il vecchio purché la figlia gli si presenti nuda. Quella nudità ormai non ha nulla di erotico, carnale, sensuale. È la nudità della pretesa, del possesso, della sottomissione. Per Dorsday ha più a che fare con la sua onanistica soddisfazione del desiderio che non con la materialità dell’amplesso. Inizia il personale calvario di Else: adempiere o no? Sottoporsi a questo meretricio di egoismi, che non ha nulla sul piano della lealtà contrattuale, o far emergere la scelta di rifiuto dell’adultità consapevole (la soggettività tramite l’omissione, la disobbedienza e la destituzione)?



Schnitzler è un indiretto, incisivo, ritrattista di interni. È vero, professione medica e letture intense gli danno comunque l’impulso a sviluppare tre temi di carattere generale. C’è quello tecnico-stilistico: l’invenzione del monologo interiore, il pensiero del personaggio che contiene il resoconto parziale ma autentico degli eventi che lo sconvolgono. C’è quello sociale: l’immobilismo dell’alta società euro-orientale, solo apparentemente nascosto dai frenetici scambi tra rampanti e decaduti. C’è quello culturale: la scoperta della psicanalisi, il suo essere perfettamente coerente a un ripiegamento di prospettive, a uno sguardo sul sé che tante volte finisce per cannibalizzare l’io e il noi.



E possiamo aggiungere un dato di natura storica e uno di natura geografica. Il primo consiste nella capacità di Schnitzler di dar voce alla crisi della società tardo-ottocentesca. Non è un dato da poco, se è vero, come accetta ormai la storiografia maggioritaria, che il totalitarismo degli anni Trenta discende dalle contraddizioni e dalle conseguenze geopolitiche e civili del XIX secolo prima e della Grande guerra poi.

L’elemento geografico è pure in controluce: i grandi imperi si stanno dissolvendo, non li ha riunificati l’etica mercantilista, la struttura confessionale dello Stato e nemmeno la guerra divenuta “mondiale”. Si balla, insomma, sulle uova: o si rompono o si scivola.



Eppure, il crescendo di tensione dell’opera riguarda fondamentalmente e solo Else. Ricattatore il creditore e ricattatrice la famiglia per fare seguire il bislacco adempimento. Ricattatrice, nella scenografia dell’opera, la società stessa, così impegnata a ostentare la normalità da tenere violentemente sotto coperchio le sue crepe. Se j’accuse vi è, tuttavia, riguarda più l’ipocrisia che la ricchezza in quanto tale o la burocrazia. Le vacanze in montagna, le sale da festa, le posate e vivande a tavola, le valigie di mamma e papà, i portoni di casa, i vestiti buoni, sono contemporaneamente volume e superficie della storia narrata e della Storia vissuta.

Quando la borghesia ha scoperto l’esistenza delle nevrosi ha del pari scoperto di esserne portatrice. Più le sue abitudini si svuotavano di una muta e mutua coesione affettiva, più venivano ferocemente smantellate regole di vita interiore. Restavano solo i riti vuoti della vita sociale: sempre più opinabili, sempre più pericolanti, disposti a tutto pur di restare in piedi. Si teneva, insomma, lo stigma di una mentalità borghese, ma non la ricostruzione reticolare dei rapporti umani in un’ottica di familiarità e convivenza. Si crollava tutti appresso al crollo della classe media. E finì come finì, per Else suicida con un barbiturico flagellante e diffusissimo (il Veronal, che sovraffolla in tutta Europa in quel periodo le autopsie dei medici legali e i verbali di polizia giudiziaria) e per la Grande Vienna fuori.

Se effettività e solidarietà dipendono, in una civiltà, dalle pratiche della sua classe media, non c’è da stare allegri. C’è in giro la crescente fatica della classe media impoverita e la avvolgente sicumera acritica della classe media arricchita. Noi in mezzo che forse una volta di più ci toccherà tirarli all’inferno, o piuttosto salvarli.

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