Don Matteo Balzano, 35 anni, sacerdote della diocesi di Novara e viceparroco a Cannobio, sul lago Maggiore, si è tolto la vita
Li vedi consacrare e alzare l’Ostia durante la messa, abbelliti da vesti che li rendono diversamente umani. Li vedi seduti ad ascoltare chi si avvicina loro per una parola di ristoro, un gesto d’umanità, una benedizione che pieghi ciò che è rigido.
Li vedi all’opera: imbarcarsi con flotte di ragazzi per i campi-scuola, incamminarsi verso i santuari con gli anziani, “farsi in quattro” perché nessuno si senta foresto nella Chiesa e possa godere di una parola che, pronunciata dal sacerdote, riaccenda l’eco del Dio che l’ha pensata.
Li vedi così: all’ombra del campanile o in oratorio, dentro le galere o nello schermo della televisione, in confessionale come dentro i luoghi di lavoro, nel silenzio di un chiostro o nella baraonda della sagra di paese.
Li vedi così e, malauguratamente, pensi: “Che problemi vuoi che abbiano? Hanno sempre il sorriso sul volto”. Ci si dimentica, vedendoli, della doppia personalità del prete: uomo come tutti, forse anche il più misero – san Paolo si definì “un aborto” (1Cor 15,8) – che nello scafandro della sua vita accetta l’invito di Dio che chiede di calarsi dentro come un palombaro.
Li vedi preti e raramente ci si ricorda dell’uomo celato dietro questa disumana missione: l’uomo che piange e ride, riflette e s’interroga, che di giorno ti parla di Dio con il cuore dopo che la notte ha alzato la voce con Dio: “Maestro, non ti importa che noi moriamo?” (Mc 4,38).
Lo chiamano alter Christus il sacerdote, ma “talvolta, leggendo il Vangelo, ho come l’impressione che il Figlio dell’Uomo, durante la sua vita, non sia mai stato riconosciuto veramente all’infuori di sua madre, del cieco nato e del ladrone sulla croce” (F. Mauriac). I restanti? Picche.
Uno di questi preti, don Matteo Balzano di Novara, si è suicidato, si è tolto quella vita che, quasi certamente, avrà aiutato gli altri a colorare di un senso, di un significato: a qualsiasi età si è disposti a sopportare la stanchezza assurda, a non mollare il tentativo, a patto di riuscire a trovare un significato alla fatica. “Nessuno sa l’inferno che uno ha dentro per arrivare a un gesto estremo” disse don Matteo ad un’amica.
Si è suicidato in canonica, casa che nell’immaginario è il “pronto soccorso” dell’anima: la casa in cui, certi giorni, “nell’andare se ne va e piange, portando la sua semente da gettare, ma nel tornare viene con giubilo, portando i suoi covoni” (Sal 125,6). La casa in cui il prete, con la grazia di Dio, diventa profeta di un futuro nuovo per la tua vita; in cui il peccato viene riciclato e la consolazione diventa olio per un motore che segnava la spia rossa.
Li vedi all’opera: mai ti immagineresti che dietro quel volto ci fosse un uomo che, qualche sera, avrebbe bisogno lui di un gesto di tenerezza, di consolazione, di un abbraccio che lo stringa al posto di quel maledetto cuscino che abbraccerà nelle notti insonni come un’ostrica sta stretta sullo scoglio per non cadere.
Lui, il prete che distribuisce la pietà più bella porgendo l’olio dell’estrema unzione sul capo di chi sta morendo, muore da solo. Dentro una casa che s’è fatta prigione.
Il prete (chi scrive lo è per grazia di Dio) è confortatore per vocazione, per scelta: ma chi conforta i confortatori? Da medico fascia le ferite: le sue ferite chi le cura? Dio scommette sul suo potere di guarire: ma chi guarisce i guaritori?
La cosa più scontata: “Hanno Dio con loro, preghino invece che lamentarsi!” Ma certe sere la preghiera, per incunearsi nelle crepe della carne, ha bisogno di un vestito umano che s’avvicini all’orecchio perché attecchisca, perché non sia il soliloquio del condannato a morte ma il grido dell’innamorato che si sente solo: “Maestro, non t’importa che noi moriamo?” (Mc 4,38).
Siamo, noi preti, gente da trincea. Anche muli da soma, asini da battaglia. Basterebbe così poco, certe sere, per tenerci in ordine il cuore e la missione: una parola, una telefonata, un: “Come stai?”.
Le cose e le parole non sono mai solamente cose e parole. Non scandalizza che anche un prete, certe volti pensi al suicidio: la letizia è che una parola, a volte, abbia la forza di annullare quest’idea. Consolando chi consola.
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