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Home » Cultura » MEETING CAIRO/ Tahani al-Jibali, il nostro cuore è sempre bisognoso di salvezza

  • Cultura
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  • È morto

MEETING CAIRO/ Tahani al-Jibali, il nostro cuore è sempre bisognoso di salvezza

Emilia Guarnieri
Pubblicato 17 Gennaio 2022
Al Meeting di Rimini

Al Meeting di Rimini (LaPresse)

Si è spenta Tahani al-Jibali (1950-2022) giudice egiziana. Aveva conosciuto il Meeting di Rimini nel 2009 e aveva voluto rifarlo in Egitto

È morta pochi giorni fa, al Cairo, Tahani al-Jibali, presidente della Fondazione Meeting Cairo. Era stata il primo giudice donna nella storia dell’Egitto e vicepresidente della Corte suprema costituzionale. Con gli amici della Fondazione  Meeting l’avevamo conosciuta a Rimini, nel 2009, dove era arrivata sospinta dal suggerimento di un comune amico, il prof. Wael Farouq, che, avendo partecipato pochi anni prima al Meeting, aveva desiderato condividere con altri egiziani l’entusiasmo e lo stupore per ciò che aveva visto.


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Da quei giorni trascorsi insieme sulle sponde dell’Adriatico gli egiziani tornarono sul Nilo con un’idea chiara: anche l’Egitto ha bisogno di un’esperienza di bellezza e di dialogo come quella che abbiamo visto e vissuto noi. Passione, intraprendenza, impegno e rapporti costruirono la storia di quei giorni di fine novembre 2010, al Cairo, quando 200 ragazzi collaborarono alla costruzione della prima edizione di Meeting Cairo. Giovani in maggior parte musulmani, ragazze con lo chador azzurro, ma anche copti ed evangelici. Mostre, musica e a tema “La bellezza spazio del dialogo”. C’eravamo anche noi italiani.


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Cosa stavamo toccando e condividendo? Una grande amicizia nata intorno alla vita e alla storia di persone di fedi e culture diverse, la passione per il dialogo, il fascino di sperimentare quello che avevamo imparato da don Giussani, che il cuore dell’uomo è uguale ad ogni latitudine, in ogni tempo. Quel cuore che Giussani identifica in quel “complesso di esigenze e di evidenze con cui l’uomo è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste”.

Ancora oggi non posso togliermi dagli occhi quel gesto con cui Tahani si portava  la mano sul cuore, con gli occhi e il sorriso pieni di commozione, ogni volta che condividevamo quello che stavamo vivendo in quei giorni al Cairo. E quel gesto raccontava più di ogni parola, era una lingua più universale di quell’inglese (il mio molto approssimativo!) che provavamo a condividere.


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Un gesto come Meeting Cairo aveva colpito tanti. Ora un tale interesse appare distante anni luce. Non si parla più di religione. Il tema è passato di moda. Pochi oggi, a differenza di allora, ragionano sulla libertà religiosa o sul dialogo interreligioso, ancora meno discutono se le religioni siano un bene o piuttosto causa di violenze, se la laicità dello Stato possa consentire  le diverse espressioni confessionali. La questione della religione e delle religioni interessa veramente poco!

O meglio, c’è qualcosa di cui si parla e si scrive tanto, ma non è quel “fattore religioso, che – come dice ancora Giussani – si esprime in certe domande: qual è il significato ultimo dell’esistenza?, Perché c’è il dolore, la morte, perché in fondo vale la pena vivere?’.” Non è la religione come il tentativo storico cui l’uomo affida il suo bisogno di senso, in cui esprime la sua domanda di infinito. Il nichilismo che caratterizza il nostro tempo vorrebbe evitare di fare emergere le grandi domande e di suscitare un impegno con esse.  “La forma attuale del nichilismo – aveva scritto Julián Carrón nel 2020, nel suo testo Il brillio degli occhi – è descrivibile come un senso di vuoto fuori di noi e dentro di noi; un senso di vuoto la cui conseguenza è un indebolimento del rapporto con la realtà”.

E ancora: “questo è il volto assunto oggi dal nichilismo: una astenia, una assenza di tensione, di energia, una perdita del gusto di vivere”. In tale contesto poco importa discutere se le religioni siano un bene o un male, se siano o no una risorsa per la vita degli uomini. Sempre più, inevitabilmente, si tende ad approfondire l’analisi su ciò che non c’è, o meglio che non c’è più.

Oggi è a tema la lettura della secolarizzazione, il rapporto tra cristianesimo e modernità (come titola anche il recente libro di Forni Rosa), le chiese vuote. Come ha scritto Alfonso Belardinelli sul Foglio “se si volesse parlare chiaro si dovrebbe cominciare a dire che il mondo attuale, o meglio l’occidente, cioè le nostre società e il nostro modo di vivere e di pensare, la nostra economia, tecnologia e politica, non sanno che farsene del cristianesimo”. E aggiungeva: “Il problema è se il cristianesimo e più in generale le religioni non siano diventate insensate, inoperanti, falsificate dal mondo attuale”.

Nel testo prima citato, Carrón diceva qualcosa che forse può illuminare questo problema. “Quanto più il nulla dilaga, tanto più le ferite e le attese della nostra umanità vengono a galla con tutta la loro potenza, non più coperte dalle dialettiche culturali e dai progetti collettivi, che non hanno più presa. Più il nichilismo avanza e più diventa insopportabile vivere senza un senso, più si fa sentire il desiderio indistruttibile di essere voluti, di essere amati”.

Questo desiderio inestirpabile coincide con il cuore di cui parlava don Giussani? È questo cuore quello che la mia amica Tahani sentiva vibrare e che ci aveva fatto incontrare? Se siamo in un tempo in cui le religioni non sono più di moda, ma le domande e i desideri restano più attuali che mai, allora sappiamo da dove ripartire e cosa cercare: persone concrete attraverso le quali possa arrivare anche a noi quell’infinito di cui abbiamo bisogno, qualcosa di cui, come duemila anni fa, si possa dire “non abbiamo mai visto nulla di simile!”

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